Lascio per qualche ora il verde della mia campagna preferita, le vigne, i boschi fronzuti e le olivete, per andare a godermi qualche ora di beata solitudo, al mare.
Sono le otto e trenta e ho camminato per un paio di chilometri, gradevolmente, sul bagnasciuga; ho lasciato un gruppuscolo di circa trenta persone alle mie spalle e di fronte a me – in opportuna lontananza – intravedo un paio di figure umane in acqua.
Penso di aver lasciato un’opportuna (e rispettosa) distanza tra me e gli altri vocati a un po’ di solitudine; il sole è caldo, il mare passabilmente limpido. Stendo il mio modesto telo, appendo la mia borsa, tiro fuori un moleskine e la fedele (si fa per dire: ne posseggo almeno una decina) “pilot” punta fine.
Faccio un bagno e mentre mi asciugo al sole, pensando agli incapaci insipienti uomini (e donne!) della politica, mi metto a disegnare; è un’attività che mi ristora profondamente e mi dà molte soddisfazioni (c’è pure chi mi dice che sono brava, perciò: doppia soddisfazione!).
Un’ombra entra nel mio campo visivo, mentre sto fermando sulla carta le irregolarità scabre e graficamente interessanti di un palo naufragato sulla battigia e infilzato a mo’ di totem nella rena calda e luminosa. E’ una donna – al di là di ogni correttezza lessicale pseudo-femminista, a posteriori mi sento di definirla una stupida -. Esordisce chiedendo “scusi, lei è qui?” (forse pensa che io sia un ologramma); “no” profferisco “sono un simulacro”. Borbotta qualcosa e rinuncia ad accamparsi a mezzo metro dalla mia testa (forse pensa che potrei puzzare?).
La donna e l’uomo – lui mi pare un po’ passivo – si accampano a soli due metri e mezzo dal mio piccolo regno solitario. Lasciando più di cento metri a destra e altrettanti a sinistra, totalmente deserti. Li fotografo, perché non credo ai miei occhi: lei brontola qualcosa, ma non mi assalgono, come temevo.
Me ne vado, pensando che davvero non siamo tutti fatti allo stesso modo.