O tornozelo*quebrado (una riflessione)

Sono affascinata dalla puntualità degli imprevisti, dalla capacità del fato di mettere lo zampino nella tua vita, talvolta anche lanciandoti degli avvertimenti sotto varia forma.
Mi sembrava, anni fa, di essere entrata in quella che definivo mentalmente “the age of steam” (come l’album d’antan di Gerry Mulligan); ho avuto quest’impressione quella volta, e forse c’ero nell’età in cui senti dentro di te un’immanente forza propulsiva, ma il destino ha deciso altrimenti. O sono stata io, magari, a mandare all’aria i miei stessi piani? Certe letture le puoi fare solo molto tempo dopo.

Ne scrivo ora perché torno ad avere quell’impressione; è qualcosa che ti viene da dentro, come capire che un tempo si è compiuto e devi dare una svolta alla tua vita. Ora mi succede di voltarmi indietro e chiedermi (“caro diario, ti assicuro, senza alcun compiacimento”) come ho fatto a farcela, a uscirne in piedi – barcollo, ma non crollo? – a ritrovarmi lucida e nitida, con un’energia che anziché bastonata da eventi, incontri, alterne fortune, e una vita vissuta prevalentemente in Italia, rinnovata addirittura dalle presumibili difficoltà che potranno sopraggiungere, appena svoltato l’angolo? Domanda non retorica, di cui conosco la risposta, ma non è – qui, ora – il momento di condividerla.

Perché ormai ho scritto una complessa dichiarazione di pace; no, non è una resa, è ben diverso da una resa, è (“caro diario!”) una presa di coscienza, una deglutizione di bocconi d’incontri, di scontri, di incomprensioni (mie: sono lenta a capire le seconde intenzioni dei malintenzionati); è forse l’ingresso in un’age of steam procrastinata. Chissà. So che devo darne conto, almeno a me stessa e il titolo rimarca sia il momento in cui mi è venuto di fare il punto della situazione, sia la mia persistente passione per una lingua che mi sta aprendo un mondo. Che sia davvero un’age of steam non lo so, tuttavia mi piace pensare che possa esserlo.

Gerry Mulligan è stato uno dei compagni della mia giovinezza, ai tempi di Brera e dei concerti di Norman Grantz al Teatro Manzoni. Tra quei giorni (e c’era pure la Galleria Blu con Yves Klein) e l’oggi, nella mia vita sono passati Bruno Munari e Serge Libis, Marino Marini e Achille Funi, Augusto Morello e Carlo Argan, Milano San Felice e il Dixan, Claude Neuschwander e la Philips, Mario Malloggi e l’Abbazia di Royaumont, Marcel Bleustein Blanchet e Armando Testa, Albe Steiner e la mitica Mitzi Roncetti, Leonardo Mondadori e Tiziano Maria Barbieri, un colpo di pistola e l’incontro con un tale; e perfino Michail Gorbatchev e Gina Lollobrigida, Giorgio Armani e l’Opera Pia Trivulzio, … Silvio Berlusconi e Gabriel Garcia Marquez, Andreotti e …

E ora che guardandomi intorno capisco che un altro imprevisto è molto prevedibile, vedo una bella campagna alla fine dell’estate; inizio a odorare un vago sentore di mosto e penso che davvero qualche volta un incidente di percorso può essere utile per salvarti dal peggio. Almeno per ora, e non solo scaramanticamente.    *Tornozelo: s.m. caviglia

Prima della Via Lattea

La scena si apre su una sfilata di Armani. Siamo in via Borgonuovo e tutto è bianco: il colore dei grandi pannelli fluttuanti creano quinte suggestive che saranno il fondale della sfilata. Non era un ambiente che frequentavo normalmente, anche se modelle e fotografi – grandi, grandissimi fotografi; belle e famosissime modelle – facevano parte della mia vita professionale.
L’invito alla sfilata mi era arrivato direttamente da Giorgio Armani, dopo un incontro a cinque – con Leonardo Mondadori, Gianpaolo Fabris, Armani e Ilaria Marvelli – al Saint Andrews.
L’idea di incontrare Armani me l’aveva suggerita Fabris, il cui monitor di ricerche  analizzava il mercato anche per conto del designer stilista.
Allora, con Leonardo, eravamo alla ricerca di un testimonial significativo per far leggere di più un pubblico a cui volevamo far leggere i nostri libri. Fabris aveva organizzato la colazione per farci conoscere.
Così era nato l’invito alla sfilata. Quella sera avevo conosciuto anche Gillo Dorfles: vestito di quasi bianco, era il più elegante tra tutti; avevo letto “Kitsch”, avevo vissuto a lungo tra i designer che più ammiravo. Dorfles era testimone e attore di un momento sorgivo. Era vecchio, bello, e sprizzava intelligenza.
Questa mattina al risveglio, mi è tornato in mente quell’incontro; motore del ricordo è la morte – quella di Dorfles, dopo una vita lunghissima e fertile -, ma soprattutto, un articolo di “Internazionale” sull’invecchiamento. L’articolo finisce in modo così macabro e raccapricciante che ho voltato rapidamente la pagina per non rileggere l’ultimo paragrafo e non perdere di vista il senso della vita quotidiana.
Nel dormiveglia, chissà perché, insieme alla sfilata di Armani – forse per via del bianco? – mi è venuto in mente anche il dolce millefoglie: quello con la crema tra gli strati e lo zucchero al velo.
La millefoglie è un dolce della mia infanzia: mi piaceva molto e, nel ricordo, mi pare che fosse difficile da mangiare, e che mi piacesse anche per quel motivo. Tra gli stati di pasta croccante che si sfaldavano e si sbriciolavano c’era la crema pasticcera che fuoriusciva quando la forchetta li premeva tagliando il pezzetto di dolce, e il più lieve sospiro di impazienza (o uno sbuffo di risata) sollevava una nuvoletta bianca dallo zucchero al velo che ricopriva la pasta. Mangiare la pasta sfoglia era un esercizio di equilibrio, ma il premio era sublime. Un pensiero da un’educazione cattolica?
Oppure l’avvio di un nuovo esercizio di equilibrio, in cui ricollocare ricordi e futuro, mentre cammino sotto il cielo velato, prima della Via Lattea.

Se Brunello ti Strega

In attesa del nuovo che avanza in quella che è già stata battezzata l’Acropoli di Montalcino , obbligata a casa da un malanno, relegata tra libri impilati alla meglio e la cronaca dei quotidiani, vado con la memoria a casa Bellonci, prima ai tempi di Maria, quando pubblicò il suo ultimo libro e la presentazione per pochi (si fa per dire) intimi – non più di duecento, però – avvenne a casa di Leonardo Mondadori, a Milano, in via Donizetti, in mezzo ai quadri del padrone di casa, icone russe comprese. E la Bellonci che passando tra le donne che in editoria non sono (soprattutto non erano) poche aveva un sorriso per tutte e con voce flautata, da vipera gentile, esclamava oh le mie Isabelle.
Era il 1986 e Maria Bellonci aveva appena pubblicato il suo ultimo romanzo e non ebbi più modo di incontrarla. Ma da quei giorni mi restò un rapporto stretto con Annamaria Rimoaldi, fedele custode del pensiero ‘stregato’ di Maria Bellonci.
Divenni una frequentatrice di casa Bellonci, casa affollata di libri e quindi amica della Rimoaldi, che cercava di carpirmi gli umori della casa editrice – sia parlandomi delle debolezze dei miei colleghi del comparto libri (e c’era di che sbrigliarsi in pettegolezzi maliziosi, aneddoti succulenti, illazioni fondate e pure sfondate …), sia svelandomi il backstage del Premio Strega. La casa era tenuta lustra dalla Luigina, prossima ad andarsene in pensione, trattata da Annamaria come un’esserina fragile, con benevolenza, come la gatta, anche lei donna e complice – come solo sanno esserlo i gatti che da sempre si compiacciono di girellare tra i libri (forse in caccia di topi di biblioteca), anzi tra i gatti che hanno condiviso la mia vita ce ne sono pure stati di quelli che giravano le pagine ai libri, mentre io leggevo …
In queste frequentazioni, oltre a capire quali erano i penchant di Annamaria, che proteggeva il figlio del portinaio cercando di fargli guadagnare qualche soldo e aveva tutto un suo giro di protégé meritevoli, tra cui alcuni intellettuali, poco a poco capii che essa (ma pure la Luigina) aveva un debole per i buoni vini, pur non conoscendoli affatto.
Quando capì che la casa che avevo a quel tempo in campagna era in Toscana; e addirittura era in quel luogo di cui aveva sentito parlare vagamente come del luogo in cui si faceva un vino che rischiava di rubare la scena al grande Barolo (che a lei piaceva moltissimo), iniziò a corteggiarmi con discrezione, facendomi domande sulle vigne, su come andava l’agricoltura (di cui ero completamente ignara), e in breve capii che a uno dei prossimi pranzi a due o a tre a cui ero spesso invitata potevo fare un figurone portando una testimonianza ‘in vitro’ delle mie incursioni a Montalcino. Annamaria Rimoaldi era elbana, era stata una competente e appassionata funzionaria del ministero dell’agricoltura e questa qualità ammantava in modo credibile l’interesse per le vigne. Ricordo di averle fatto  recapitare un cartoncino da sei di bottiglie di ottimo Brunello di Montalcino di un’azienda che si chiama Poggione e lei le apprezzò moltissimo. Poi, un giorno, invitata a un ‘pranzone’ le portai un paio di bottiglie di Poggio di Sotto e le raccontai, durante il pranzo, con suo schietto godimento e dei suoi ospiti, delle lepri che girellavano per la vigna del Poggio di Sotto e che attraversavano la strada ai visitatori che guidavano su per l’erta, sicure com’erano che questi fossero Io e il Brunello (ma quello vero!)persone speciali (appassionate di un vino così speciale!). Quante storie da Strega per le leggende del Brunello.