Chi crede in bio

Qui in campagna ho visto uccidere gli alberi che facevano scomodo a secchiate di acqua bollente sulle radici (acqua bollente reiterate volte, invece del gasolio con cui si otterrebbe identico risultato, mi hanno spiegato, perché non lascia tracce e l’albero si secca ‘naturalmente’); ho visto – e questo purtroppo ancora si vede – buttare la risulta delle demolizioni o delle ristrutturazioni nei boschi, in qualche bella radura; ho recriminato molto privatamente sull’olio avanzato dalle fritture e sversato tra un cespuglio e l’altro e scritto – nella mia veste preferita: quella della strulla di Milano – sui rischi (anche estetico- turistici) delle pratiche diserbanti …

Ma la campagna sa essere crudele, anche miope – cieca -: non sto parlando degli alberi o dell’erba e nemmeno dei filari di viti che in questi giorni ci stanno regalando gli ultimi bagliori dorati prima dell’inverno. No: parlo ovviamente di noi umani e della nostra visione del mondo; che in campagna – anche più che altrove – coincide con la tele-visione, cioè con il livello più basso e più incolto del paese Italia.

L’Italia con la vista corta non legge, perciò non sa, anzi nega a sé stessa la possibilità di allenare le proprie idee e le proprie esperienze; non legge e invece guarda la tv, quella italiana, la più becera tra tutte. Perciò la vasta platea dei non lettori, fino a poco tempo fa non sapeva che una nuova sensibilità verso il verde – inteso come colore di piante e prati – stava facendosi prepotentemente strada in vasti gruppi sociali e diventava una delle principali componenti culturali del mondo cosiddetto civile.

In campagna la vita è dura – anzi no, però lo sembra – e ciò che attrae chi ci vive non è tanto l’innovazione, o la ricerca di un migliore approccio alla modernità, o una maggiore apertura mentale. Quello che interessa, invece, è come cavarsela (chi sta peggio); oppure come fare più soldi. Eppure, contrariamente a quello che sembrano pensare gli abitanti della campagna, anche se la città è il luogo della modernità e del business, la campagna – la terra, più specificamente – è il luogo del futuro.

Lo sarebbe comunque, dato che la terra – il suolo – è un bene ‘finito’, cioè qualcosa che non si può produrre: una volta che l’hai consumato – inquinando, costruendo, insterilendo, sciupando – non ne puoi creare dell’altra, come accade per i soldi o (in modo un po’ più limitato) con gli edifici. Ma se lo si cura, questo bene (la terra), se lo si fa fruttare in modo che sia sempre più bello (anche esteticamente) e più buono (tramite ciò che vi cresce), addirittura più profumato, è come se avessimo messo dei soldi in titoli ad altissimo rendimento, ma titoli anche molto sicuri (spero che l’esempio usato aiuti a migliorare la mia capacità di farmi capire).

Un manipolo – mica tanto piccolo – di imprenditori e cittadini, molto variegati tra di loro – il 23 di questo mese ha fondato un comitato per la creazione del Bio-Distretto, qui a Montalcino (ma senza limitazioni territoriali). Io c’ero, anzi ho pure contribuito nel mio piccolo; c’ero e pensavo, mentre guardavo le persone che andavano a firmare il proprio impegno, alle diversità tra i ‘profili’ e i pensieri che li avevano spinti fin lì, sfidando chi sé stesso, chi la diffidenza verso alcuni dei convenuti, chi il conformismo regnante in una collettività rurale che stento a definire comunità, ma che proprio questo evento potrebbe svegliare a un senso della solidarietà in nome della terra (del benessere della terra).

Il 23 novembre per me è un giorno speciale, e ho pensato che anche questo lo fosse – lo sia stato -, tuttavia bisognerebbe iniziare da subito a elaborare questa idea di “bio” che – ancora una volta – per gli immediati dintorni si ferma alla parola; parola che da sola non basta (con la sola eccezione di “Euchessina”) e che la macchina – scassata – della ‘comunicazione’ ha subito iniziato a usare in tutte le salse. Con creazione istantanea di mostre fiere, kermesse, convegni e, pure (tanto per cercare di essere più reali di un re), lezioni di cucina vegana.

L’urgenza di superare la parola, passando subito alla testimonianza, coincide con l’interesse a chiarire che bio non è un modo di aggiungere (la definizione alla propria etichetta e al nostro biglietto da visita), ma è un modo di vivere e di pensare. E fa niente se i ‘fondatori’, da questo punto di vista non sono tutti perfettamente vergini. Perché chi crede nel bio sa che quando uno incomincia a pensare in un certo modo e alcuni vecchiDSCN9126 schemi si scompaginano, si fa largo un modo diverso di guardare la terra e si inizia a capire che chi crede in bio, crede in sé stesso e in una vita più ricca. E questo è un pensiero davvero contagioso, in un momento in cui la capacità di credere in qualcosa che sia anche bene comune si è affievolita, mentre invece bisogna a tutti i costi darle un senso e maggiore energia.

Otto Marzo

Occorre ricordarlo: è il compleanno di quella che ha tutta l’aria di diventare l’intellettuale della mia famiglia che cresce. E non sarà la sola: c’è già qualcuna che le ‘succhia la ruota’, come si usa dire …
E allora libri per fare festa, per imparare il nome delle cose – il nome corretto che non dà spazio a fraintendimenti – per imparare a esporre compiutamente le proprie idee e difenderle, caso mai capitasse anche in tempi futuri di incocciare in arroganti pigliatutto. Libri anche per imparare a contare, in tutti i sensi e non solo a far di conto; libri per tenersi da conto, per avere cura di sé e di tutti quelli che ci stanno a cuore.
Libri per sapere e per saper decidere, per sé e per chi magari ci chiede aiuto. Libri per giocare con le idee, per svilupparle, per raccontarle, per illustrarle, per realizzarle.
E poi libri per divertirsi, per creare storie nuove, per vivere una vita in più, per imparare la storia; libri per amare e da amare, per conoscere la vita di quelli che sono venuti prima di noi e immaginare quella di quelli che verranno dopo.
Libri, per averne sempre uno a portata di mano, sotto il guanciale, sulla sedia accanto alla tua, nella borsa, nel cesto della spesa, sulla scrivania, accanto al water …
Libri perché non bastano mai e non riusciremo a leggerli tutti, ma intanto aprirli e leggere una frase, un periodo, un aggettivo …
Libri per sapere che le idee sono il vero capitale, quello che rende ognuno di noi unico e prezioso.
Libri per non cedere all’ignoranza, alla solitudine, alla depressione, al qualunquismo. Libri per celebrare l’amore, per cantare la libertà, per migliorare la propria salute, per scegliere il proprio destino, per salvarsi la vita.
Buon Otto Marzo alle mie donne piccole e grandi.

Mi mangio un libro

“Mi mangio ‘sto libro” sembra comunicarmi, con squittii, mugolii, versi un po’ canterellanti, la piccola nipote a cui faccio un po’ da balia asciutta, per un paio d’ore. Per evitare che si annoi, appena sveglia, e che piagnucoli facendo sapere a tutti che sono una che i piccini li ama ma non li sa intrattenere comme il faut, estraggo un libro dallo scaffale nella camera in cui dormiva e le mostro la copertina di un bel rosa carico – narrativa di serie ‘A’ -, la collana è degli Oscar Mondadori e ricordo quando la lanciammo.
Le apro il libro sotto il naso (nasino), piego il volume chiuso tra il dito medio e il pollice e lascio che le pagine scorrano come in una sfogliatura accelerata: le piace e io rieseguo. Ma la terza volta che ci provo è di troppo, si tuffa a capo in giù tra le pagine e lecca la costola del volume, poi tenta di morderlo, ma è bello spesso, è un romanzone dall’avviamento lento … poi ci si appassiona.
Mentre lei fruga freneticamente tra le pagine, tentando di assaggiarle, mi viene in mente mia madre che quando compii cinque anni mi regalò un libro bellissimo che tutt’ora rileggo a pezzetti, ogni tanto; e ogni volta ci ritrovo qualcosa di sorprendente. L’altra nipotina, che sta lontano da qui e la vedo più raramente, quando sta qualche ora con me, mi mette un suo libro in mano, lo apre, mette un dito su una parola e lo fa scorrere, poi chiede a modo suo, con un grammelot infantile, di leggere la parola indicata, quindi si procede per tutta la storia, con quel piccolo dito impertinente che saltella da una parola all’altra, chiedendo di sapere di conoscere il significato di quei segni, che mano a mano e un giorno dopo l’altro acquistano significato (e forse qualcuno di loro avrà un senso particolare, magari associato a un momento, a un suono o a una luce particolare). Per crescere, niente è meglio che mangiarsi un bel libro e magari berci sopra un po’ di musica!

Il Colore delle Parole

Campari e Calassole parole del campariessere brilli e vederci chiaroleggere per piacere Vivo nella terra del Brunello e quando voglio andare a Milano, bevo un Campari. Il pensiero arriva subito a destinazione, nella mia testa, e non è quello della “Milano da Bere”, che sarà stata effimera ma non era poi così sgradevole (almeno per chi beveva!), ma è quello delle parole – anzi della parola scritta: quella che fa l’uomo differente e meno piatto -; delle parole e dei libri; delle pagine in cui perdersi per poi ritrovarsi diversi, dell’editoria assaltata dal business, dalla finanza, dalla politica (e magari dalla ‘Ndrangheta); parole per dire il proprio dissenso (o la propria volontà), libri per incrementare pensieri e azioni. Editoria per alimentare il bisogno di conoscenza: ingrediente indispensabile per alimentare l’amore.