Fatto da me

Ho letto da qualche parte che l’ottimo Farinetti è intervenuto sul tema del made in Italy sollecitando il governo e gli immediati dintorni a “creare un marchio” per l’italianità, con una grafica (comitato, giuria, concorso) anche in vista dell’Expo 2015. Ho subito pensato che l’idea fosse banale e bellissima allo stesso tempo. Perbacco, certo, ho pensato subito anch’io che ci voleva qualcosa a sottolineare l’inestimabile patrimonio dell’italianità – artigianato, food, vini, arte e paesaggio – e sono andata a fare un giro, rimuginando sulla cosa. Oggi era successa un’altra cosa, un po’ imbarazzante e a suo modo rivelatrice. Una casa produttrice di armi da guerra ha messo “tra le mani” del David di Michelangelo un fucile mitragliatore e ne ha fatto una pagina pubblicitaria. Tra l’altro molti giornali – tra cui Il Giornale – riportano la notizia in modo curioso “il David di Donatello di Michelangelo” svelando così un po’ della cultura artistica del nostro giornalismo corrivo. Cammina cammina ripensavo a queste notizie apparentemente eterogenee, invece no. Perché la seconda notizia riguarda la stima, la considerazione e il rispetto che il mondo ha per noi e per il nostro paese. Poiché ci considerano molto, acchiappano un Michelangelo e lo usano per fare pubblicità – non a un Bourbon (e sarebbe già discutibile) – ma alle armi da guerra. Niente male! E allora pensavo: non sarà di certo un marchio – che una volta avrebbero pensato di affidare a un genio del design e della grafica, tipo Massimo Vignelli o Enzo Mari  e che ora affiderebbero a un qualsiasi Lapo o, meglio ancora, a qualche figurante di partito senza arte né parte -, dunque non sarà di certo un marchio, soprattutto se “pensato” nelle adiacenze dei nostri governanti a conferirci carisma e credibilità. Perché ancora una volta ci si affideremmo a una paroletta sperando che faccia il miracolo. Ma in realtà il miracolo dovremmo farlo tutti noi – uno per uno – tutti i santi giorni, scrivendo la paroletta giusta. Così mi è successo, venerdì scorso, in un negozio di calzature di scegliere un bellissimo paio di scarpe per acquistarle – un prodotto del design italiano, firmato da un marchio famoso e molto chic-. Poi ho alzato la linguetta e sotto c’era scritto made in Vietnam. Io, giuro, non ho niente contro i vietnamiti (nemmeno quando venivano defoliati ce l’avevo con loro), ma quella scritta mi ha fatto imbestialire e ho fatto una cosa strana: strana per una come me che è perfettamente consapevole che l’abbigliamento made in Italy viene fatto in Bangladesh e ora anche molto in Bulgaria, molte scarpe in Vietnam, e così via. Ho detto alla commessa no guardi, sono davvero contrariata perché chiamano made in Italy una scarpa che è made in Vietnam … che senso ha? La parola non basta. Come le lenticchie di Castelluccio che sono made in Canada, ma packed in Castelluccio. Insomma perché accade questo? Perché Italy e Castelluccio, o Colonnata, o Extra Vergine Italiano, o Toscana, hanno un valore preciso. Nel caso del made – fatto – in Italy in genere, si tratta di vendere il lavoro di “mani che obbediscono a un pensiero“, insomma si vende qualcosa di molto speciale, che ha reso ‘sto povero paese molto famoso in tutto il mondo; così famoso che tutti vengono a cercare il made in Italy. Salvo poi scoprire che ‘de palabras se trata’. Nient’altro che parole dette da imbonitori spregiudicati e anche poco furbi, perché osano pensare che gli altri, tutti scemi, non se ne accorgeranno …

Il tutto si è riallacciato alla proposta di Farinetti, di creare una parola che dicesse … made in Italy (!). La parola c’è già. Non è un’altra parola che dobbiamo inventare, ma un comportamento: dobbiamo dichiarare una guerra feroce alla corruzione e alle menzogne, contro le finzioni e i falsi che non esitiamo a spacciare per autentici. Vere condanne, altro che creare una nuova parola. Che verrà perciò creata e applicata e disattesa, dal made in Italy della politica nostrana, così fedele alla tradizione.