Nell’iperspazio e dintorni

Il momento più bello è quando ti svegli. Non importa se hai grane da sciogliere o se, almeno in apparenza, tutto filerà liscio. Sei vivo. Ma non è come essere vivi o essere morti; è una terra di nessuno, anzi di molti moltissimi (pensieri) che entrano, escono e a volte permangono. Un viaggio di pensieri, anche catastrofici, anche in potenza drammatici. Ma tu sei in un altrove che però è lì: sei nella tua mente, sapendo che ci sono gli iper vulcani, che ce n’è uno, inesorabile, che sta lievitando tutta la sua energia quasi sotto il tuo letto tiepido e confortevole. L’idea dell’Italia che si spaccherà, di una mega Pompei, del mare che si inventa una nuova strada per dividere lo stivale in due, di una vera ristrutturazione dell’Europa fisica, come se fosse una grande costruzione di sabbia in riva a un mare cosmico, su una spiaggia infinita, sotto l’urto di un’onda di lava, con le interiora della terra che fuoriescono cambiando i paesaggi così noti; non ha il sapore del disastro, perché è un pensiero che scorre e si sovrappone a ricordi teneri e piacevoli di un tempo solo apparentemente finito. Quel tempo non è finito perché ce l’hai vivo nella mente. I volti incredibili e quasi inguardabili dei mostri che forze perverse hanno mandato a sventolare bandiere aliene – giovani, vecchi, islamici e no: tutti deformi e orrendi – ti vengono in mente; non sei sveglio, ma nemmeno dormi. Ti viene da pensare che è una congiuntura strana: uomini orrendi che fanno cose terribili e stupide e il risveglio di un immane vulcano che ribalta tutto. Però puoi vedere come se fossero lì uomini e giorni, e ancora il mare quello praticamente sotto casa, che ora ha un odore diverso, quasi puzza, o così ti sembra. Tieni da parte la tenerezza per il risveglio vero, nella realtà per come riesci a toccarla, a vederla bevendo un caffè. Arrivano a tenerti compagnia frotte di morti che morti non sono, perché ti raccontano ancora giorni e musica e vino. Poi magari squilla il telefono e tra uno squillo e l’altro, prima di deciderti e rispondere, visualizzi il primo incontro con il vecchio paese dove sei andata a stare, la gente e gli alberi, soprattutto gli alberi; la luce che cambia, i pomeriggi d’estate e il caldo assurdo di tanti anni fa (“qui non piove mai” ti dicevano, e ora “non piove più”, ripetono, e infatti nevica). Così si viaggia in un mattino d’inverno, con i giorni che si sfogliano via veloci e tu che cerchi di entrare in una porta dell’iperspazio per avere un’idea (no, delle elezioni no, non voglio sapere, è tutta una finta; un gombloddo, direbbe mio figlio irridente), un’idea di come vivranno, come vivremo. Con il fiscal compact, magari, tra un anno. Allora sei sveglio.

Buona Pasqua di Risorgimento

DSCN5683Se penso alla Pasqua di dieci anni fa, che cos’è cambiato? Tutto – mi sussurro da sola – tutto! Anche se c’è qualcuno che scaramanticamente finge di non accorgersene. E’ cambiato il lavoro che sta sparendo, sono cambiate le nostre giornate perennemente connesse, è cambiata la politica ormai ego riferita; cambia la nostra lingua diventata un italiano imbastardito; è cambiato il paesaggio delle persone, con l’aumento dei vecchi soprattutto in città; sono cambiati i nostri costumi e la nostra visione del futuro che si è incupita. Sono cambiate le nostre prospettive, nonostante gli sforzi di alcuni che ogni tanto alzano la testa dai propri interessi perseguiti con tenacia, per declamare che tutto sta cambiando in meglio.

Guido in mezzo alla campagna addolcita da mille sfumature delle stagioni che intrecciano i loro colori, incuranti delle magagne umane, della nostra inconsistenza, delle nostre debolezze. Guido in un paesaggio ben conosciuto – tra San Quirico d’Orcia e il bivio per la Foce – in mezzo a un traffico esitante, tipico del turismo stagionale con i rallentamenti improvvisi di chi non si ricorda di essere per strada, insieme ad altri. Mi accorgo di essere senza gasolio e mi fermo a un distributore.

L’uomo – grande e grosso – mi si avvicina e suppongo che mi stia guardando dietro alle lenti scure con cui è bardato; gli sorrido, ma senz’altro userò il self service, e il mio sorriso è quasi di scusa perché farò a meno dei suoi servigi. Il mio sorriso però si spegne di botto leggendo il prezzo dei carburanti, in tempi di Isis e di crollo del prezzo del petrolio. Un euro virgola sessanta e più centesimi (al self e per il gasolio): io resto a bocca aperta. “Ma quanto costa la benzina qui da voi!?”. Esclamo non tanto per protesta, quanto per dovere di protesta. Perché da sempre penso che nessuno debba camminarmi sulla pancia obbligandomi al silenzio, e lo faccio anche in nome e per conto di tutti quelli che per distrazione, per viltà, per insipienza o per mancanza di tempo stanno zitti.

Vengo investita da una marea di parole irridenti “lei chiacchiera ma non sa quello che dice” è solo un piccolo campione della sua dialettica. Mi infilo gli occhiali neri anch’io e esordisco dicendogli che “so benissimo che lei è impotente e il prezzo non lo fa lei”, so che è la compagnia semmai ad approfittare del fatto che il distributore è l’ultimo (o il primo, venendo dalla direzione opposta) dopo un lungo tratto di strada e però declino l’offerta del numero di telefono per chiamare la Kiùeit e vedermela con loro. “Non serve a niente e sarebbe tempo sprecato”.

Mentre ci scambiamo le ultime battute villane e mi convinco che se la strada non fosse trafficata come oggi quel balosso potrebbe anche darmi uno spintone tanto per gradire, mi viene in mente quello che ho letto qualche giorno fa, a proposito dei prezzi al dettaglio dei carburanti: “Con la Pasqua e un bel po’ di gente in giro il prezzo della benzina salirà” e penso che, in questo, il paese non è cambiato: è più uguale che mai ai suoi politici.    

Aggiornamento

Se stai nel centro storico di un vecchissimo paese – cioè praticamente nella sua parte più suggestiva ed emozionante – ti aspetti di riviverne gli echi, quelli dei vecchi abitanti (magari alcuni li hai conosciuti), rivedere con l’immaginazione i ritmi di vita di un tempo (vita operosa e semplice, ma piuttosto povera); da ‘straniera’ pensi di compiacerti del clima di ruralità alla toscana, di confrontarti con il sarcasmo – la categoria dello humor più frequentata dai toscani – e di acquisire il ritmo – operoso e defatigante, ma sereno, delle giornate in una simile isola felice.
Invece isis – la sigla del fanatismo sunnita – ha scelto questo tempo – già di per sé complesso e difficile – per lanciare la sua campagna puzzolente di petrolio e irrorata di sangue.
“Goditi l’isola felice, di questi tempi è una rarità”, mi pare di sentire una voce (magari la mia stessa) che suggerisce di cogliere l’attimo, perché non si sa davvero se nella rivoluzione meteo e in quella sociopolitica ci sarà posto per un barlume di speranza. Anche se quello là ha recitato che la memoria senza speranza è … (non mi ricordo più, comunque è una sciocchezza) .
Certe cose non possono essere dette da tutti: sulla bocca di alcuni appaiono come delle bolle di sapone mal riuscite.
Ma per tornare a sentimenti e sensazioni che si possono sentire nel vecchissimo paese, (c’è anche la vendemmia in corso), niente assomiglia a quello che mi ero immaginata, a parte le pietre, in apparenza immutate.
Il villaggio è abitato da una maggioranza araba- tunisina che negli anni si è riallineata all’islam gradualmente sempre più stretto e osservante. Le donne hanno adottato il foulard ed escono poco, durante il ramadan gli uomini di sera si mettono la djellaba e si radunano tra di loro, proprio come se fossero nel loro villaggio.
Con il manifestarsi del fondamentalismo demenzial-sunnita, si è ricreato un diaframma tra noi e loro. che si consolida divenendo vagamente ostile, da parte nostra, e irridente, dalla loro.
L’idea che si fa strada non è quella della paura o del panico, ma è qualcosa di più complicato … l’ immagine di quel delinquente vestito di nero – che nella mia mente si duplica e confonde con le deiezioni di un cane malato, domina il nostro immaginario, e non si può non pensare che quello lì – ex uomo o già merda che sia – DSCN1589 ha o ha avuto una madre e che cosa sua madre può provare per lui – spavento, disgusto, schifo, orrore.
Sono questi pensieri che frenano tutti gli altri; poi il tempo e le temperature, la stupidità degli uomini che non hanno ancora capito (o fingono) dov’è sparito il lavoro, mentre sul fondo Lucio Dalla canta “caro amico ti scrivo …”

ODIUM

Mi ha fatto piacere capire e sentire che non sono stata la sola a rimanere sconvolta. Oh, naturalmente è un piacere per modo di dire, pensando alla ragione del turbamento profondo che mi ha dato tanta angoscia. La ragione è l’orribile – tristissima e apparentemente anacronistica – immagine di soldati, disarmati e legati, vilipesi, umiliati, e fatti oggetto del lancio di spazzatura da parte di una folla di cittadini, qualcuno addirittura con il cane al guinzaglio, ignari dell’autoumiliazione che si infliggevano degradandosi, divenendo inumani, subumani e non so nemmeno più come definirli – dio mi guardi dal chiamarli bestie, perché la dignità nella foto è retaggio del cane, seppure al guinzaglio -; un’immagine che appartiene ad ere che noi europei (per una volta provo ancora a esserlo) superbamente ritenevamo fuori uso, fuori contesto, fuori in assoluto, rispetto alla nostra “civiltà”, al nostro mondo “democratico”.

Ma ti svegli una mattina e scopri che c’è anche un imbecille pseudo islamico, esaltato, che crede di farti paura tagliando la testa – ma non la dignità – a un uomo imprigionato, legato, rasato, nel tentativo vano di azzerarlo e farne un simbolo. E poi c’è anche un delinquente assassino che alle porte di casa tua taglia la testa a una donna ucraina, non si sa bene perché. Né precisamente lo si saprà mai, dato che la polizia, volente o nolente, l’ha ucciso.

Allora la tua unica, microscopica, speranza sta nell’intuire che altri – come te – sono rimasti turbati e sconvolti oltreché dai fatti in sé, da ciò che significano per coloro che li vivono sulla propria pelle, anche (forse soprattutto) per ciò che quei comportamenti significano per noi: sono tamburi di guerra, una terribile promessa – pianificata a tavolino – che subiamo senza ribellarci, nel timore di perdere la nostra brioche quotidiana

 

odium

[oh-dee-uh m] /ˈoʊ di əm/
noun
1.

intense hatred or dislike, especially toward a person or thing regarded as contemptible, despicable, or repugnant.
2.

the reproach, discredit, or opprobrium attaching to something hated or repugnant:

He had to bear the odium of neglecting his family.
3.

the state or quality of being hated.
1595-1605; < Latin: hatred, equivalent to od (isse) to hate + -ium -ium
Synonyms
1. detestation, abhorrence, antipathy. 2. obloquy.