Globalisation

Ricordo ancora il vecchio odore della stazione Centrale, di Milano, quando accompagnavo o andavo a prendere mio padre che andava a Genova. Sapeva di bitume e di vite viaggianti – con vago sentore i formaldeide in sottofondo – un odore inconfondibile, ricco di ricordi. C’era il bar dove tutto costava inspiegabilmente troppo, i borsaioli in agguato, la farmacia sempre aperta, due edicole e il modello dell’Andrea Doria sotto vetro (come a ricordarmi che papà era imbarcato). Ho ancora le foto dei mitici sbarchi di mio padre – a Genova o a Le Havre, o a Southampton, con un Borsalino in testa e il bavero del cappotto alzato dato che veniva quasi sempre da paesi caldi – e finché campo, pensando a mio padre lo vedrò salire o scendere, da un treno, da una nave, da un aereo: l’uomo con la valigia, lo chiamavano gli amici e mia madre.

Ora invece vado spesso alla stazione di Grosseto, dove per sentire gli odori di cui sopra devi spencolarti sulle rotaie e tirare su forte con il naso: allora ti arriva remoto il sentore, che è l’ombra dell’odore d’antan. Però a Grosseto – lo ricordo bene – ho accompagnato per l’ultima volta a un treno mio padre che era venuto a trovarmi durante la mia vacanza toscana; era molto malato, ma piuttosto irriducibile; mi domandavo se ce l’avrebbe fatta a salire sul treno e, giunto a Milano, se sarebbe stato in grado di arrivare a casa. E’ stato il suo ultimo treno, che io sappia, circa trent’anni fa.

Sempre alla stazione di Grosseto, giorni fa ho invece accompagnato Francesca, che andava a Nord. Come trent’anni fa, il treno era in ritardo. Fuori dalla stazione alcuni rom osservavano da lontano i movimenti di un gruppetto di tossici che si davano da fare intorno a una fontanella. Sull’uscio due poliziotti stavano impalati a guardare un paio di immigrati slavi un po’ alterati; con Francesca siamo andate al bar della stazione, che ora si chiama Chef express, ma il servizio è lento. C’è una sola banconista, che fa tutto, dalla somministrazione alla cassa. Conosce il valore della cartamoneta, ma non parla la nostra lingua. E’ un’orientale, carina, con occhi vuoti e priva di espressione; abbiamo capito che aveva capito l’ordinazione quando ci ha messo davanti un caffè e un té. Francesca ha chiesto la chiave della toilette, ma ha dovuto rinunciare perché il gesto di risposta era incomprensibile … Poi è arrivato il treno, in media con il ritardo di sempre e ci siamo avviate ai binari. E’ lì che ho avvertito il lontano ricordo dell’odore di stazione, mortificato però dal potente profumo del detersivo con cui un operaio stava riempiendo un macchinario per lavare i marciapiedi: in tuta gialla, con strisce fluorescenti e la scritta “Cleaning Service”.-