Voce Amica

DSCN7808La parola resilienza mi fa tornare in mente l’immagine della farina sulla spianata da impasto, e la mezza tazza di acqua tiepida e leggermente salata che viene versata nel centro di quel vulcano bianco che dovrebbe trattenerla per impastarsi e diventare tagliatelle; e l’acqua pare si ingegni per uscire, dividendosi in mille rivoli, da quella prigione bianca. Poi penso agli alberi quando si protendono tenacemente alla ricerca della luce, quando questa è bloccata da una parte. L’epilogo sarà diverso, perché l’acqua sull’asse per fare la pasta dei miei ricordi infantili non sfuggirà al suo destino alimentare, e invece un albero che tende tutto sé stesso, (a costo di “cambiare idea” o portamento), per sopravvivere o per crescere meglio, ce la farà.

Imitare la resilienza degli alberi? Non so, ma certo per cambiare e fare in modo che il cambiamento sia un’evoluzione (qualcosa di costruttivo e di vitalizzante) richiede lo sforzo di imparare l’attitudine di quell’ albero alla ricerca di luce, o forse anche di prepararsi a fare “la fine” dell’acqua che diventerà tagliatelle (cioè qualcos’altro). Il senso della resilienza, almeno per me, è quello che ci capita di sentire in certi momenti in apparenza insormontabili quando si è chiamati ad affrontare e risolvere difficoltà e amarezza (che ogni tanto la vita ci propone) senza consegnarsi alla rassegnazione e al comodo pessimismo, ma cercando alternative, con attitudine positiva. Evitando magari di fare la fine dell’acqua e cercando di comportarsi come un albero che insegue la luce bloccata da un lato, volgendosi da un’altra parte.

Per questo concordavo con la voce amica che stamane mi rivelava di trovare ‘ispirazione’ (e forse anche ‘consolazione’?) in un quartetto di Franz Schubert che aveva ascoltato al risveglio e che gli aveva regalato, aprendo gli occhi, la forza di affrontare un lavoro impegnativo, in una giornata più difficile delle altre.

Amo molto Mendelssohn che ascolto spesso, ma la musica di Schubert è capace di farci andare alla ricerca della luce, e vedere da che parte arriva, come fanno DSCN7808gli alberi – creature solo apparentemente immobili.

Mi dia un Etto di Paesaggio

Sì, paesaggio ma non troppo. Un etto basta e avanza: è giusto quello ‘zic’ che serve a “fare business”, un’espressione che sto incominciando a detestare; non per moralismo nei confronti dei danée, degli affari, cioè del business di cui prima, ma perché in questa fase delicatissima, in cui chi pensa e legge e riflette dovrebbe aver capito che valorizzare non vuole dire tradurre in cartamoneta, ma significa proteggere, riguardare, rivedere i criteri di convenienza a lungo termine, senza – ovviamente – trascurare il lavoro e le sue remunerazioni. Invece il paese sembra abitato da pappagalli orecchianti, pronti a dire la parolina giusta, quando si pensa che sia quella che “fa fare business”. La parolina, ma nulla che vada oltre; e invece è vero che “basta la parola”, ma basta ad andare “là”! DSCN5991

Così, dopo il super qui e il super lì, dopo i lunghi anni di ginnastica sulla “qualità” e sull'”eccellenza”, la campagna nostrana scopre il paesaggio, cioè scopre sé stessa. Qualcosa che, nei secoli è stato nel cuore e nella mente di poeti e musicisti, alle spalle di madonne e altri santi, nell’idea di un mondo intelligente e colto (che non vuol dire libri letti, ma gente che pensa!), in cui l’agricoltura “produce” il paesaggio; e quanto più è bello il paesaggio prodotto, tanto più è buono ciò che l’agricoltore produce.

Diamo il benvenuto ai nuovi adepti del paesaggio, e speriamo che non lo pensino come nell’immagine qui sopra: qualcosa da citare, da da tenere in un recinto di comodo, affinché non rompa le scatole a chi “deve fare business”. Perché il paesaggio – ce lo ha spiegato uno dei massimi poeti viventi – è dentro di noi e produce, sì: produce pensiero e civiltà.