Guardare indietro per guardare avanti

Venticinque anni fa come oggi, più o meno a quest’ora, ero ospite a pranzo – colazione di lavoro, come si dice a Milano, per smitizzare l’espressione e metterla un po’ a dieta – dalla Bice in Borgospesso. Il mio anfitrione aveva lasciato le sue guardie del corpo fuori, in via Borgospesso e mi aveva portato un bel flacone di Eau de Cologne Imperiale di Guerlain in dono (un litro).

La scena me la ricordo come se la dovessi ricostruire in un improbabile diorama per il museo della Milano di Tangentopoli. Ma i giudici, che scavavano a nostra insaputa nella variegata merda metropolitana, ancora non si sognavano che la sostanza puzzolente che essi maneggiavano fosse come l’ailanto.

L’ailanto è un albero ormai diffuso in Europa, dalle caratteristiche infestanti (più lo tagli, più si riproduce, come la Medusa); è anche bello – proprio come il mondo laccato dalla corruzione di cui scrivono i quotidiani in articoli la cui obsolescenza ricorda le infinite forme di demenza che si suppone affliggano i vecchi. Invece affliggono l’intero paese.

Il mio anfitrione di quel giorno, oggi, è in galera, e confesso che mi dispiace un po’, ma pare abbia avuto qualche parte nella rappresentazione della multiforme corruzione italiana.

Quel giorno, invece, cogliendo il mio suggerimento molto lombardo, ordinò per entrambi risotto con l’osso buco e gremolada regolamentare: da bere – con mio scandalo autentico (peggio di una tangente, quella era addirittura una secante!) – Dom Perignon “millesimato”!!!

L’intento credo fosse sincero, però io avevo tenuto l’invito per me – non si sa mai –  e solo molti anni dopo ho cominciato a raccontarlo agli amici e agli amici degli amici (in accezione lombarda). L’intento era quello di dimostrarmi attenzione, quella che si merita una dalle cui mani passava – da parecchi anni – l’intero ‘expenditure’ della comunicazione di un grande gruppo. Passava, l’expenditure, e nemmeno un micro-corpuscolo ne restava nelle suddette mani: miracolo all’Italiana? No, a me – ma anche all’AD del gruppo in questione – sembrava normale, anche se oggi non lo sarebbe affatto.

Devo osservare che venticinque anni fa, nonostante l’avvento più che giustificato di Tangentopoli, poteva ancora succedere che qualcuno maneggiando l’equivalente di un paio di centinaia di milioni di euro non se ne appropriasse, né in toto né in parte. E che magari non ci pensasse nemmeno ad appropriarsene …

Ma era la somma che mi capitava di gestire, pubblicitariamente parlando, non la mia persona, a interessare il mio anfitrione, peraltro molto religioso. Nonostante io vestissi un elegante tailleur blu di sartoria (un inno alla sobrietà), con un paio di pendenti di corallo, lavorati da un artigiano di Gaeta e finiti – cinque anni dopo – nel bottino di un rapinatore di amabili signore. Ma il pranzo fu delizioso e ancora oggi, ripensandolo, mi sento quel delizioso ossobuco sciogliersi in bocca.

Mi è tornato in mente quel mio pranzetto di compleanno di venticinque anni fa, perché questi sono anniversari in cui si fa un po’ un bilancio e allora ci si guarda indietro – non per vedere chi ci sta dietro alle spalle, che pure sarebbe prudente, di questi tempi – per capire anche come andare avanti. Non tanto per trovare la forza, ma piuttosto per individuare una direzione in cui procedere …

E allora non posso non ricordare le parole guardinghe con cui mi venne proposto un cambiamento davvero radicale, nel mio lavoro e forse anche nella mia intera vita, a fronte di un assegno “su cui scrivi tu la cifra”. Dopo venticinque anni in cui ho vissuto una vita piuttosto divertente, di certo molto interessante, seppure con alcuni momenti addirittura drammatici, sono ancora qui a chiedermi se davvero ho fatto bene a dare una risposta un po’ ingenua (certamente non corrispondente al mio ruolo) che declinava l’autentica fortuna che mi stava rotolando nel piatto, quale ulteriore contorno alla magnifica cucina del rinomato ristorante … Strana cosa, i compleanni: strana e un po’ magica, talvolta.

Essere o non Essere (madeinItaly)

Mi telefona uno che non conosco e che ha beccato il numero del mio cellulare sul mio sito. MI coglie mentre esco da un’edicola di Sinalunga, dove ho lasciato tre uomini alti dal volto toscanissimo (come si fa a capire ‘toscanissimo’? si capisce, si capisce molto bene) a parlare della crisi e della ‘mancanza di ricette’ per curarla.

Il tipo che ha chiamato è del nord e mi ci riconosco subito – magari non interamente nell’aria un po’ cauta, quasi esitante, con cui mi saluta -, mi riconosco soprattutto nelle parole ammirate con cui si bea della bellezza della Val d’Orcia, dichiarandosi visitatore abituale (e frequente). In realtà è uno che va al sodo; vuole il mio famoso (chissà?!) chocolat ed è andato sul mio sito, come si direbbe in milanese, a ‘ravanare’.

Stabilito il contatto e ‘rotto’ il ghiaccio, rompe pure gli indugi e scopro che sa un sacco di cose su di me e pure che vino fanno le mie figlie. Mi accorgo di aver perso un po’ i codici dialettici nordici, da come stavo per tirar su un muro, esattamente come fa la gente di qui che è cordialissima, ma che salvate le eccezioni, che pure ci sono, si può esser certi che i sorrisi sono di comodo. Ma anche a causa dei tre dal volto così toscano e dalla recriminazione facile, che mi ritornano in mente, nella seconda telefonata che, come si sul dire, tra noi intercorre, dopo aver esordito con lusinghiere (per me) richieste di chocolat (mio costoso passatempo), gli chiedo qual è l’attività della sua azienda.

Ne parla, come mi è tornato subito familiare, con quella passione quasi sensuale per il proprio fare che riconosco solo nel lombardoveneto (i piemontesi sono più chiusi al proposito) – non che altre (tutte) regioni italiane siano sprovviste di passione per il lavoro, ma nel lombardoveneto questa viene espressa in un modo particolare che mi è noto -. E mi racconta tutto un ‘inside’ che mi lascia interdetta.

In pratica mi racconta come nel settore – rubinetteria, mi cita ad esempio – vi siano aziende che acquistano le componenti in India o in Cina, incuranti della presenza di un’altissima percentuale di piombo (che in Italia è bandito da decenni, per gli effetti dannosi alla salute). Poi assemblano la rubinetteria, ci mettono il marchio “made in Italy” e furbescamente vendono con il loro prestigioso ‘marchio italiano’; con tanti saluti alla salute, alla verità delle cose, e non da ultimo ai posti di lavoro – mi viene da pensare. Me lo racconta per spiegarmi come sia diventato difficile, addirittura impervio, lavorare facendo sfoggio dei talenti e della conoscenza tutti italiani, che ci hanno reso famosi. Ecco uno in grado di apprezzare un lavoro fatto con passione, penso, e un giorno a quelli come lui racconterò la mia storia: la storia di una “strulla”.

Dopo aver parlato con il signore in questione mi viene in mente che di made in Italy c’è rimasto poco più di quella che ci piace chiamare furbizia, ma che è, ancora una volta, una frode concessa da chi dovrebbe controllare che queste porcherie non succedano.

Globalisation

Ricordo ancora il vecchio odore della stazione Centrale, di Milano, quando accompagnavo o andavo a prendere mio padre che andava a Genova. Sapeva di bitume e di vite viaggianti – con vago sentore i formaldeide in sottofondo – un odore inconfondibile, ricco di ricordi. C’era il bar dove tutto costava inspiegabilmente troppo, i borsaioli in agguato, la farmacia sempre aperta, due edicole e il modello dell’Andrea Doria sotto vetro (come a ricordarmi che papà era imbarcato). Ho ancora le foto dei mitici sbarchi di mio padre – a Genova o a Le Havre, o a Southampton, con un Borsalino in testa e il bavero del cappotto alzato dato che veniva quasi sempre da paesi caldi – e finché campo, pensando a mio padre lo vedrò salire o scendere, da un treno, da una nave, da un aereo: l’uomo con la valigia, lo chiamavano gli amici e mia madre.

Ora invece vado spesso alla stazione di Grosseto, dove per sentire gli odori di cui sopra devi spencolarti sulle rotaie e tirare su forte con il naso: allora ti arriva remoto il sentore, che è l’ombra dell’odore d’antan. Però a Grosseto – lo ricordo bene – ho accompagnato per l’ultima volta a un treno mio padre che era venuto a trovarmi durante la mia vacanza toscana; era molto malato, ma piuttosto irriducibile; mi domandavo se ce l’avrebbe fatta a salire sul treno e, giunto a Milano, se sarebbe stato in grado di arrivare a casa. E’ stato il suo ultimo treno, che io sappia, circa trent’anni fa.

Sempre alla stazione di Grosseto, giorni fa ho invece accompagnato Francesca, che andava a Nord. Come trent’anni fa, il treno era in ritardo. Fuori dalla stazione alcuni rom osservavano da lontano i movimenti di un gruppetto di tossici che si davano da fare intorno a una fontanella. Sull’uscio due poliziotti stavano impalati a guardare un paio di immigrati slavi un po’ alterati; con Francesca siamo andate al bar della stazione, che ora si chiama Chef express, ma il servizio è lento. C’è una sola banconista, che fa tutto, dalla somministrazione alla cassa. Conosce il valore della cartamoneta, ma non parla la nostra lingua. E’ un’orientale, carina, con occhi vuoti e priva di espressione; abbiamo capito che aveva capito l’ordinazione quando ci ha messo davanti un caffè e un té. Francesca ha chiesto la chiave della toilette, ma ha dovuto rinunciare perché il gesto di risposta era incomprensibile … Poi è arrivato il treno, in media con il ritardo di sempre e ci siamo avviate ai binari. E’ lì che ho avvertito il lontano ricordo dell’odore di stazione, mortificato però dal potente profumo del detersivo con cui un operaio stava riempiendo un macchinario per lavare i marciapiedi: in tuta gialla, con strisce fluorescenti e la scritta “Cleaning Service”.-