Sei come ti guardo

“C’è qualcosa che mi parla, in una foglia che apparentemente fa parte di un albero, di un ramo di quell’albero. Ma come mai si fa più avanti di tutto il resto? Non è solo perché sta davanti, è più vicina; lei parla perché lo sa fare, perché è ‘in condizione’ di farlo”. Più o meno è questo che mi succede quando guardo il bordo di un campo, il confine tra un prato e il bosco contiguo, il portamento di un albero o un filo d’erba che non vuole essere schiacciato, una zolla, i granelli di terra in controluce. Ho sempre guardato – credo con attenzione –  e mi è sempre successo di vedere solo quello che (qualcosa dentro di me) volevo vedere, prendendo formidabili equivoci, sempre con uno sfondo estetico apparente: ma in realtà interpretando a mio uso e consumo quello che vedevo e sentivo. Ma è solo da poco che mi sono resa conto di questo. Dopo anni che mi succedeva senza che lo capissi. Quando mi è successo di vedere quello che guardavo; vederlo non (solo) con gli occhi, ma anche con gli occhi. Quello che scrivo in questo momento può sembrare una di quelle che comunemente sono dette ‘menate’; certamente è qualcosa di molto personale (non mi succede mai di voler disegnare qualcosa o fare una foto che ho visto e mi è piaciuta). Sono sicura, invece, che sia qualcosa che accade a tutti. A tutti quelli che hanno una mente mediamente allenata a pensare anche per immagini e non solo in modo funzionale. Ho deciso di descrivere questa (?) sensazione, più che altro per ricordarmene. Intorno vedo e sento di persone che stanno perdendo la vista e lo raccontano; io capisco che la mia vista si sta modificando e cerco di venire a patti con queste mutazioni che, però, intervengono nel mio modo di vedere (non di guardare, però cambiano il modo in cui vedo). Allora quella foglia che ‘viene avanti’ ha qualcosa da dire, da dirmi, e così mi viene da disegnarla: tutto il resto – rami, rametti, butti, altre foglie, tronco e perfino erba o zolle e un po’ di altri elementi e poi cielo e, sì, nuvole (ah Turner, da andare a vedere a Roma, al Chiostro del Bramante!): tutto il resto viene dopo quella foglia. Solo così si può disegnare? Come ‘pensava’ – cosa guardava e come vedeva – Turner? Non posso evitare di chiedermelo ogni volta che penso al mare e al cielo, alla neve, a una tempesta, come lui li ha guardati, visti e in quel modo dipinti.

Più vedo, più guardo. Più leggo, più capisco

 

DSCN1939“Sia io, sia Vasilij Ivanovic siamo sempre rimasti colpiti dall’anonimia delle varie componenti di un paesaggio, così pericolosa per lo spirito, dall’impossibilità di non riuscire mai a scoprire dove conduce quel sentiero che … e guarda com’è invitante quel folto d’alberi! Capitava che su un pendio lontano o in uno scorcio intravisto fra le piante comparisse e, diciamo così, restasse immobile per un istante, come l’aria trattenuta nei polmoni, un luogo tanto incantevole – un terrazzamento, un prato, l’espressione perfetta di una bellezza tenera e benevola – da far credere che fosse possibile fermare il treno e andare là, per sempre, da te, amore mio … Ma mille tronchi di faggio già balzavano avanti forsennati, turbinando in una pozza sfrigolante di sole, e di nuovo svaniva l’occasione di raggiungere la felicità”

Anch’io come Vasilij ho imparato il paesaggio nei lunghi viaggi in treno fatti con mia madre che mi esortava a guardare e a ‘vedere’ ciò che guardavo. Sono stati i libri, poi, a darmi gli strumenti per leggere anche le emozioni che provavo e che continuo a sentire nel guardare e vedere il paesaggio, i paesaggi – anche i più consueti -. Ho trovato quel sentire, così ben descritto nei racconti di Vladimir Nabokov, quelli raccolti sotto il titolo “Una Bellezza Russa”; la citazione è tratta dal racconto intitolato “Nuvola, lago, castello” e penso che racconti perfettamente il sentimento di chi guarda (e vede e perciò sente!) il paesaggio in cui noi umani viviamo, camminiamo, e agiamo.

Forse sta crescendo una nuova sensibilità, ma il gusto del paesaggio (il senso estetico di ognuno è davvero influenzato da fattori e circostanze e frequentazioni) che potrebbe accomunare molti, è fortemente incrinato dalla banalizzazione televisiva e dall’arrivismo (anche legittimo in un certo senso) di quelli che, costruendosi una casa, o ristrutturandone una, o arredandola, o piantumando il proprio giardino, sono sospinti e motivati in modo confuso – nelle loro scelte – dall’incapacità di ‘provare emozioni’, se non quelle suscitate dall’idea del possesso e dai soldi. Tutt’ora!

E’ abbastanza inevitabile in un paese povero come il nostro: povero d’idee che non siano legate (ancora) all’idea di successo, soldi, esposizione di ciò che i soldi che uno ha guadagnato consentono di avere. Avere per essere, anzi per apparire, come un po’ sommariamente citava il Renzi Matteo – addobbato Scervino – (meglio essere che apparire, eccetera, si vede che gli avevano parlato di Eric Fromm) in uno dei predicozzi ammanniti all’incolto (nella sua lettura non completamente inesatta dell’italiano medio: altrimenti chi lo voterebbe?!) e un po’ meno all’inclita.

Eppure il paesaggio è un capitale sociale che solo il nostro cattivo gusto collettivo, o le rapine a cui è soggetto in questi frangenti il nostro paese, possono sottrarci. Ed è un bene importante (sarebbe), perché vivere in un bel paesaggio è alla base di una qualità di vita superiore: qualcosa che potremmo anche commercializzare, proponendola a chi non ce l’ha e viene a cercarla da noi  e siccome noi siamo un paese di non lettori, non abbiamo gli strumenti conoscitivi (e di sensibilità) indispensabili a capire e tradurre ciò che capiamo in fatti, comportamenti, modi di sentire.

A questo serve leggere: non per obbligo nemmeno per citare, e non per esibire. Troppa tv brutta, sciatta, banale hanno annichilito la vera crescita dell’Italia.