“L’ècole de Montalcino”, è altrove

Il diciotto dicembre 1996, presso l’ècole d’architecture de Lyon, ero correlatrice di una tesi di laurea il cui tema aveva preso le mosse tra Milano, Verona e Montalcino. Il titolo della tesi era (è: ne ho ancora una copia) quello del post che sto scrivendo, ma – come spesso accade – a quelle parole non seguirono mai dei fatti; forse perché non crediamo nel potere dei sogni o per qualche altra ragione di contorno.

Centre de recherche et d’enseignement du territoire, des matières  et des pratique professionelles, pour redonner aux métiers manuels leur valeur culturelle.” Per restituire al lavoro manuale la piena legittimazione e il valore culturale che gli è proprio, è il senso del sottotitolo della tesi.

Due mesi fa – a ben diciassette anni di distanza da quell’inverno lionese, e a venti dalla presentazione di questa idea al Comune di Montalcino – l’ècole (come viene brevemente chiamata) ha iniziato a divenire cosa concreta, ad alcune migliaia di miglia dai luoghi in cui è stata pensata.

Era nata da un mio invito a Francesco Varanini, perché venisse a esplorare i luoghi dove nasceva il Parco della Val d’Orcia  e dove un vino molto meno famoso del Barolo stava divenendo una star mondiale.

A Milano, dove lavoravo, avevo l’accesso a tutta l’utenza pubblicitaria, rapporti con UPA, con i più reputati istituti di ricerche, con giornalisti e con i protagonisti della cultura. Con Varanini, esperto di organizzazione del lavoro e sociologo, avevo avuto rapporti professionali abbastanza saltuari, ma sufficienti ad apprezzarne la grande lucidità e la capacità di visione. Eravamo entrambi ‘seduti sul bordo della sedia’, intuendo l’imminenza della Grande Svolta: si sentiva nell’aria che il lavoro a cui guardavano le nuove generazioni era sempre più astratto e terziario; i mestieri (anche creativi) in cui si sporcavano le mani erano lavoro per i poveracci.

Era morto da pochi anni Mario Formenton, il lungimirante presidente della Mondadori e le lotte per il controllo dell’azienda, oltre a preoccupare, facevano parecchio riflettere sugli sviluppi futuri di un mondo che andava perdendo conoscenza di sé stesso insieme alla capacità di guardarsi obiettivamente.

Non è il blog un luogo per approfondire questi pensieri – che non pubblico a caso -; mi limito qui a sottolineare che saltava agli occhi la completa delegittimazione sociale patita dal lavoro manuale e da chi lo praticava. Sono anni ormai che il cittadino (di città) si fa vanto di una zappatina occasionale in un’improbabile vigna; son pure molti anni che l’idraulico viene dalla Polonia (anzi ora è in procinto di ritornarvi), il boscaiolo dalla Macedonia; l’operaio agricolo dalla Tunisia; e dall’Albania sono immigrati tanti neo-imprenditori di sé stessi. Tutti costoro però svolgono lavoro manuale come una risulta, mentre la manualità (intesa come la capacità di realizzare ciò che la nostra mente immagina) è lontana dall’idea di lavoro, impiego, sviluppo, realizzazione di sé stessi.

Negli anni che sto ricordando, Pierre Genou, un giovane francese che frequentava il Politecnico di Milano, amico dei miei figli, partecipò alle discussioni e agli incontri di quello che stava evolvendo in un vero progetto – anche grazie al patrimonio di contatti attivati da me e da Varanini – per restituire alla manualità cultura e conoscenza. Venuto in visita a Montalcino, Genou divenne il terzo lato del ‘triangolo progettuale’ e decise di laurearsi con una tesi che trattava proprio di questo tema e del suo possibile svolgimento a Montalcino.

Due anni fa, Genou ha viaggiato a lungo in Birmania e ha avuto l’opportunità di parlare del progetto con un’imprenditrice locale, buona conoscente (o addirittura amica), di Aung San Suu Kyi e due mesi fa il cantiere de l’ècole (non più di Montalcino, ma con lo stesso obiettivo di ridare luce e valore al lavoro manuale) ha preso vita.

A volte tra il dire (l’immaginare) e il fare (realizzare) c’è di mezzo molto più del mare.