Plumetis

 

Ognuno la può pronunciare come vuole, ma l’origine di questa parola è francese (“plume”, piuma di cui evoca la leggerezza; e forse “tissu”, cioè tessuto … ma di questo secondo significato non sono certa, anche se mi sembra scontato). Perché “plumetis” è un tessuto, usato (ancora) nell’alta moda, è una mussola – principalmente di cotone – lieve, ricamata spesso con un piccolissimo pois a rilievo, in colore contrastante (di solito più chiaro) con il colore del tessuto.

A me ricorda mia madre e la sua cura per i particolari, il gusto del colore (quello che ho imparato lo devo a lei e alla Cecilia Mora Uematsu), e la sua predilezione – sempre, finché è vissuta – per tutto ciò che è di qualità, sia nella scelta di prodotti, come in quella del lavoro accurato e dei materiali – duraturi e di buon gusto -.

Da bambina a casa mia, non si “consumava”, si provvedeva al cibo e all’abbigliamento con il criterio del ‘meno, ma di qualità’. Per quanto riguarda il cibo la regola era ‘ di stagione e locale’, anche se Milano non era campagna, ma al mercato e nelle botteghe mia madre ricercava sempre la stagione e i luoghi, e siccome era una che leggeva e ascoltava, faceva scelte che ora potrebbero essere definite ‘politiche’ (no alle primizie, perché oltre a costar care erano certamente frutto di forzature e di irrorazioni di chissà quali sostanze e così via). Ma tutto avveniva senza enfasi, in modo ‘naturale’, perché i soldi erano pochi, ma le idee (di mia madre) erano chiare. E’ lei – come ho già avuto modo di ricordare su questo piccolo blog – che mi ha insegnato, in tempi non sospetti e meno affannati, a produrre spazzatura ‘pulita’, perché è parte di noi stessi, espressione della nostra cultura e segno di rispetto per quelli che la raccolgono e ci lavorano … Per il vestire, le scelte di mia madre erano limitate dalla relativa scarsità di risorse disponibili per raggiungere l’obiettivo di mandarmi in giro vestita con buon gusto, materiali duraturi, e colori che mettessero in luce quelli miei naturali.

Le due figure a cui era affidata la fattura del suo pensiero erano la signora Signorotto (ricordo che abitava a San Siro, dove venivo accompagnata per provare i vestiti) e la signorina Re, che confezionava i tailleur per la mamma e che in seguito avrebbe vestito anche me, con scelte brillanti e di gusto, fino agli anni del liceo e forse oltre … La signorina Re, che aveva una sorella modista, abitava in via Vincenzo Monti e da lei passa il mio tenue legame – nato allora – con la Toscana, un luogo esotico dove si parlava un italiano molto particolare, rispetto alla lingua della Milano di allora.

Non si facevano molti abiti, ma la cura con cui erano realizzati era pari a quella con cui venivano mantenuti. Anche quelli che venivano cuciti per me che crescevo: perciò pochi, da tener bene e con la possibilità che – abilmente allungati – potessero essere usati anche nella stagione successiva. L’estate era il momento dei piquet (o piqué), sempre bianchi, o del sangallo, o dei plumetis. Questi ultimi più delicati, ma ogni tanto mia madre seguiva le suggestioni della signora Signorotto che proponeva qualcosa che sarebbe stato particolarmente bene “alla bambina”.

Ho un ricordo particolarmente nitido di quando – non ricordo quanti anni avevo – un’estate, mia madre mi ha fatto provare l’abito di plumetis rosa, il mio preferito, e ha realizzato che ero cresciuta troppo per indossarlo ancora. L’abito fu allungato, con cura e sempre dalla Signorotto che aveva anche questa incombenza, e l’ho portato un secondo anno. Custodito con cura, con il colletto in mussola ricamata finemente, il davanti impreziosito con un ricamo a punto smock (si usa ancora ed è chicchissimo!), un po’ stropicciato ma ben tenuto, ha passato una vita intera (la mia) nel cassettone che ho ereditato da una bisnonna, insieme alle tele tessute e ricamate da nonne, bisnonne e persino trisavole (a ciò che ne resta, perché poco a poco sono – e vengono – consegnate al futuro).

Mi sono accorta, tirandolo fuori dal cassettone, che anche il mio vestito di plumetis rosa era pronto per il futuro, per una carnagione chiara e un temperamento un po’ meditativo, ma pronto ai giochi, come quello della mia nipotina più grande. E tirandolo fuori, per capire se era della misura giusta, mi è sembrato chiaro che solo le cose che hanno una storia sono capaci di legare il passato al futuro senza diventare retoriche e banali, con una staffetta di esperienze, ricordi e affetto a cui capita di dare spazio solo quando ci si accorge della relatività tempo.

 

 

La Scuola che volò da Montalcino

A volte i sogni ‘non finiscono all’alba’, prima di una sana camminata tra le belle vigne che circondano questo paesino, questo hamlet di Montalcino. Può succedere che incontrino momenti, situazioni e gente speciali e che vedano la luce di menti lucide, di persone brillanti e soprattutto coraggiose. E che non galleggino a mezz’aria in un paese (in un continente?) che pare affetto da narcolessia, un intorpidimento allucinato e pessimistico, da cui non riesce a scuotersi. In un altro post, mesi fa, avevo accennato a un giovane architetto che all’inizio degli anni novanta venne a Montalcino; avevo anche scritto di un collega di lavoro che si occupava di formazione e di un progetto che, con quest’ultimo, avevo studiato: per creare a Montalcino (si stava costituendo il Parco della Val d’Orcia) una scuola di arti e mestieri che avesse l’obiettivo di “ridare al lavoro manuale dignità e valore” e fascino, con l’apporto e il contributo di poeti, scrittori, filosofi, artisti; ma anche di imprese e aziende di servizi, oltre agli indispensabili maestri d’arti e mestieri. Stiamo parlando di un’altra Italia, di un tempo passato, che mi pare ci sia scivolato tra le dita – perso per sempre? – le cui opportunità nessuno ha saputo cogliere, tanto meno la politica – distratta da altre ambizioni, da sogni con ali più corte -.aung_san_suu_kyi_time[1]

Ora però, il giovane architetto francese – che a suo tempo si laureò a Lyon, proprio su quell’idea che trasformò in una tesi e poi in progetto – “L’ècole de Montalcino” – è emigrato in Birmania, dove vive e lavora. E dopo una lunga storia in cui si intrecciano vita e professione, curiosità e pragmatismo, oriente e occidente, vino e ideali…. in Birmania, nei luoghi in cui – a lungo e di recente – è stata anche mia figlia Margherita, la scuola che era stata pensata per Montalcino e la Val d’Orcia, è stata finalmente realizzata. Dallo stesso architetto, ora un po’ meno giovane. E a finanziarla sono state due donne, visionarie, generose e combattive – Myo Su, che l’ha fatta partire, e Aaung San Suu Kji, con la sua fondazione. Perché a volte i sogni volano lontano e atterrano in luoghi inattesi.

Il Messaggio dell’Architetto (di conoscenza e d’amore)

L’architetto è molto. E’ molto tante cose: molto alto, molto vecchio, molto elegante, molto creativo, molto avanti col pensiero, molto intelligente – di quell’intelligenza che avevo già incontrato in personalità speciali, come Bruno Munari, ad esempio, un modo di essere e di agire che si accompagna sempre all’ironia e alla semplicità.

E, l’architetto, ama, e muove il suo pensiero sul filo dell’amore, filo con cui cuce progetti, che traduce in opere che raccontano il suo sentimento per il luogo, con l’aiuto di una manualità sorprendente; quasi che oltre ad essere quel progettista visionario che è, fosse anche la reincarnazione di un homo faber, un artigiano sapiente.

L’architetto ama perché conosce (e ri-conosce perché ama), e questo dàDSCN6073i colori dell'architettolezione d'amore e conoscenza frutti particolari. Ecco allora che la conoscenza profonda di Sant’Angelo in Colle – dove regnò Re Liutprando e dove ora sta il trono di Re Brunello -ha prodotto un’operina straordinaria, che prossimamente sarà presentata ai cittadini, e fatta conoscere anche (soprattutto!) agli architetti a cui parlerà del senso dell’architettura in un paesaggio potente e delicato come questo.

Proviamo a guardare più in là

“Se si affronta un problema con il metodo razionale del pensiero si ottengono dei risultati logicamente corretti ma che, proprio per questo, sono già implicitamente compresi nell’esposizione del problema stesso. Quando si richiede invece una soluzione veramente diversa e innovativa si deve stravolgere il problema, partire dal punto più lontano possibile, ribaltare i dati, mescolare le ipotesi, negare certe sicurezze e addirittura affidarsi ad associazioni di idee del tutto casuali.”

La citazione viene da un libro di DeBono – autore (e docente) che ho conosciuto e frequentato, negli anni d’oro del lavoro illuminato dallo sguardo (davvero liberal) di un presidente straordinario – Mario Formenton – uno con l’occhio lungo, generoso e ‘cinico’ allo stesso tempo. Uno che mi permetto di definire cinico, proprio perché aveva capito un sacco di cose; tra queste, che la formazione – anche quella apparentemente meno immediata nel produrre frutti – era (è, sarebbe) un investimento. Perché dipendenti e collaboratori che capiscono – nei fatti concreti – che credi in loro, sono più legati emotivamente all’attività che svolgono, sono più interessati a risultati ottimali, perché in essi vedono anche un risultato della propria creatività e della propria personalità.

Questo è il lavoro. L’ho imparato prima da mio padre (che mi esortava a ‘metterci l’anima’, a qualsiasi attività mi dedicassi), un vero perfezionista. L’ho imparato poi in una serie di incontri – i primi fortunati, poi, sul filo delle esperienze, cercati tra i consulenti e i formatori giusti -.

Oggi quello che mi stupisce di più, nel posto in cui vivo, è proprio la mancanza di ricerca del meglio. Il posto è strepitoso, na da “posto” bisognerebbe farlo diventare “luogo”, tuttavia credo che quelli che ne condividono la differenza, davanti a una proposta del genere, penserebbero a qualcosa come “più elegante”, oppure “più moderno e attuale”, oppure “bisogna cercare di sfruttare meglio le nostre qualità”. Ancora moltissimi, nonostante il momento, penserebbero a un modo per incrementare il fatturato!

Invece c’è un’altra strada, ci sono altre vie, che cominciano dall’esistente – in natura o nelle nostre teste – e poi ci conducono a guardare più in là, cercando, attraverso associazioni mentali libere (e poi orientate), prospettive diverse. Attenzione: prospettive, sviluppi, non arzigogoli o superfetazioni all’esistente.

Ci sono maestri di pensiero che lavorano, e hanno lavorato, su queste capacità (che ognuno di noi – quasi tutti – possiede); essi sono capaci di allenare la nostra mente verso visioni “laterali” rispetto a quelle già scontate, che fanno parte dell’esperienza quotidiana. Funziona per le attività lavorative, ma aiuta ad affrontare la nostra esistenza imparando a trovare strumenti alternativi – ma anche più adeguati – a quelli consueti. Sarebbe importante usare questo modo di pensare, nei momenti di cambiamento (come quello in cui siamo immersi fino al collo); ma è molto difficile farlo da soli. Perché è come se noi abitassimo in una casa dotata di molte porte, ma fossimo così abituati ad usarne sempre – poniamo – un paio, tanto da non vedere quasi più le altre; quelle che ci consentirebbero l’ingresso diretto a qualche spazio che conosciamo poco o niente, anche se esso fa già parte del nostro appartamento.

E’ un attitudine, quella che sto citando, agli antipodi di un modo d’agire che si incontra troppo spesso, e che impedisce di manifestare la propria creatività.

Questo sarebbe il momento; questo sarebbe anche il posto giusto, per pensare al futuro; perché dove sono evidenti le risorse, i valori e le qualità intrinsecheil mare come lo vorremmoè anche più facile pensare a nuove vie. Nel momento in cui pochi non hanno ancora capito che cambiare il modello di sviluppo è oramai una questione di sopravvivenza (economica e umana), bisogna attrezzarsi per “un nuovo modo” e un “nuovo sguardo”. e il primo attrezzo di cui munirsi è proprio un (bel) po’ di pensiero laterale; qualcosa che è in noi, ma che pochi di noi riescono a utilizzare.