Pensami Giacomina

Vivo in un paese la cui atmosfera speciale è ormai legata alle pietre di cui sono costruite le case, al garbo dei restauri (ma non tutti), al buon cibo dei due ristoranti e all’afflusso quotidiano di avventori vogliosi di fare “l’esperienza enogastronomica” in un luogo che suscita in tutti l’idea di una vita meno tesa e più umana. Ormai i nativi sono ridotti a poche unità, integrate da una piccola comunità nordafricana e da alcune robuste badanti polacche e ucraine: tutti intenti a farsi gli affari propri e alcuni molto impegnati a sbarcare il lunario.
Perciò l’ho saputo solo oggi, e forse non l’avrei nemmeno saputo, se non avessi l’abitudine di salutare tutti gli abitanti che incontro e di scambiarci due parole, quasi che queste brevi chiacchiere potessero colmare gli interstizi e le crepe ormai evidenti tra persone con vite centripete e dissonanti. Perché mi sono accorta da tempo ormai, che le pur poche persone rimaste ad abitare il paese – parlo di quelli che sono originari dei luoghi – sono schierate in gruppetti, ognuno aggrappato a un non so che, a un’area di potere, a una tradizione di casta sociale … ed è molto triste constatare che un luogo in cui (un tempo ormai lontano) tutti erano molto poveri ma pronti a stare insieme per celebrare una ricorrenza, ora è diventato un posto molto bello, anzi affascinante, dove i superstiti – molto più benestanti di chi non c’è più – hanno perso ogni senso della loro comunità.
Che la Giacoma, non l’avessi incontrata per il paese da qualche po’ di tempo, incominciavo a sentirlo, ma non a notarlo (orari diversi, i miei, e anche un po’ discontinui) ma anche se è ultranovantenne e se ogni volta che l’incontravo in paese non mancava mai di dirmi che lei presto sarebbe finita a Terracina – con grottesca e cimiteriale battutaccia alla toscana – la vivevo sana come un pesce e nemmeno più ipocondriaca come un tempo. Ma un ictus, no, non era nel mio immaginario, e nemmeno avrei mai pensato che (per un mese) durante le mie mattutine visite al bar di piazza, in cui incontro due o tre vecchi abitanti, a questi non sarebbe mai venuto in mente di dirmi (o di chiedermi) di Giacomina, che era stata trovata in casa in terra priva di conoscenza e che –dopo una trafila ospedaliera – da qualche tempo non vive più in paese, ma in ‘commenda’.

6 pensieri su “Pensami Giacomina

  1. Ricordo vivissimamente la Giacomina, che ho conosciuto negli anni ’70, il suo brio quando aveva il ristorante, suo marito Oreno che mi raccontava la storia della “serpe che alloppia l’omo”, le passeggiate nei boschi con lui esperto di funghi, l’approdo in trattoria da lei come un porto sicuro, caldo, il luogo per me ideale dove sedersi in compagnia e dividere buon cibo e buon vino in compagnia. Ricordi degli anni intensi in cui proprio tu, Silvana, mi iniziasti alla campagna, che non faceva parte del mio universo, ed in cui oggi vivo.
    E’ un po’ duro arrivare a quell’età in cui sono più quelli che devi salutare di quanti nuovi puoi -e vuoi- abbracciare.

    • Così è.
      Poi raschiando i pensieri dei paesani, in questi due giorni dopo avrer fatto sapere che ero irritata, ma soprattutto addolorata, per non aver saputo all’istante (come gli altri) della malattia di Giacomina, mi pare che abbiano più prevalso lo sgomento e la ritrosia di fronte allo spettro di un destino comune ai “vecchi fortunati”; comune a quelli che arrivano a novant’anni e oltre in pieno senno e sulle proprie gambe.
      Anche questa ritrosia è molto campagnola, è della gente abituata a fare i conti più duri con la vita, per i beni primari, altro che vendite allo scoperto: siamo agli antipodi esistenziali.
      Giacomina mi chiedeva quasi tutti i giorni che facevo da mangiare; alle mie risposte evasive o sommarie un po’ si scandalizzava: oggi le ho detto “ricordati che ti pensiamo (io e le gemelle) e che ti vogliamo bene e che proviamo gratitudine per te. Son riuscita a dirglielo senza commuovermi troppo. Il segreto per tenere botta alla commozione?
      Ricordare i menu di Giacoma e Oreno, quando gestivano il bar tabacchi, con pranzi su ordinazione (recensito da Camilla Cederna):
      – tagliatelle col ragù,
      – pinci idem,
      – scottiglia (di pollo, di coniglio, di maiale),
      – pollo fritto, coniglio fritto,
      – patatine mondiali,
      – sott’olio (carciofini e funghi trovati da Oreno),
      – insalata dell’orto di qualcuno,
      – crostata o mantovana.
      Che ricordi!

  2. La vita in campagna mica era in questi termini.
    Lo stare in uno di questi paesini era come vivere in una famiglia allargata in cui tutti si era parte di una comunità in cui se uno ti diceva buongiorno non si stava una mezza giornata a chiedersi perchè ci fosse stato detto buongiorno e cosa ci avrebbe guadagnato chi lo ha detto.
    Poi sono arrivati i soldi, sfacciati e tanti che hanno cominciato a gironzolare in questi luoghi e hanno dato parecchio alla testa generando la malattia mentale più incurabile del mondo: l’invidia.

    • L’ho toccato con mano, caro Andrea, anzi con l’anima!
      La Goacoma mi bussava, sapendo che ero malata e mi portava il brodo…Oggi l’ho vista, nel suo piccolo letto in Commenda, arrabbiata perché non riesce a parlar bene, perché la sua fibra di donna forte, che ha sempre lavorato, resiste e si oppone alla malattia. Poche sono le parole che le si possono dire senza scivolare nella retorica, e le ho ripetuto “pensami Giacomina e sappi che ti voglio bene e che ricordo le tue patate fritte: le più buone del mondo, fin’ora insuperate!”.

    • La Giacoma è soprattutto arrabbiata: perché lei aveva sposato un uomo assai più giovane di lei – Oreno – e contava di morir prima di lui e da lui accudita. Invece le ho ricordato che è figlia di un uomo che è campato ben oltre i novant’anni – insegnando anche a giocare a briscola alle mie figliole! – e che appartiene a una famiglia di longevi. Andrò a trovarla, ma di baci non se ne parla: io spero che possa recuperare e tornarsene a casa sua…

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