Patata mentale

Sto seduta in questo dehors simpatico e animato, sorseggio un ‘abatanado’ e mi godo il sole momentaneo di questa stagione incerta. Stando sola mi abbandono al piacevole vizio della divagazione; è un esercizio che mi appare costruttivo, da cui esce sempre qualcosa che poi applico nella vita quotidiana – tipo vago e utile, o qualcosa del genere -. Non bisogna però dimenticare che la vita quotidiana è fatta di banalità. La immagino come un broccato o un satin operato (chi li conosce capisce bene che cosa ho in mente!), una superficie uniforme su cui, ogni tanto, e magari con scansione regolare – appare un motivo ornamentale che può essere più o meno creativo o più o meno ripetitivo. Ma guarda un po’, certo questa è solo una metafora, ma per come mi viene in mente ha dei bei riflessi cangianti, come i bei tessuti che mi sono sempre piaciuti, che andavo a sbirciare nelle vetrine milanesi o nelle città dove i miei mi portavano in visita, così “la piccina impara a stare al mondo”. La mia sosta in un caffè non è mai troppo lunga, anche se si tratta di un bistrot dall’aria amichevole e ormai abbastanza familiare; il grande piede che mi hanno costruito dentro durante l’adolescenza è sempre in agguato e mi sospinge fin dal mattino, anche quando i tempi delle urgenze sono finiti. Così le mie divagazioni sulle banalità quotidiane hanno spazio breve anche se i disegni che mi vengono in mente sono suggestivi e il motivo che decora il tessuto prende la forma di una deliziosa conchiglia fotografata sul davanzale di una loggia a casa di una vecchia amica che sa raccontare storie affascinanti. Penso che potrei disegnarla quella conchiglia che, accanto ai rami di un rampicante non ancora fiorito, diventerà un intreccio di linee armoniose; decido che imposterò il disegno appena rientro a casa, e lascerò ad altri i colori, anche quel tenero colore vegetale che continua a tornarmi in mente, come se mi volesse parlare; una sfumatura non appariscente, eppure raffinata, come la buccia calda di un frutto nutriente; ah i colori quando li guardi, vedendoli finalmente!, nella natura, nei frutti, negli ortaggi. Quel colore che insiste a venirmi in mente potrebbe essere un ortaggio? Forse la buccia di una patata? Ma sì, forse una patata novella. Una patata?! Mi alzo e pago in fretta, più in fretta che posso; resisto alla tentazione di correre, tanto non so se ce la farei. Ma corro mentalmente, più in fretta che posso. A spegnere il fuoco sotto la patata, prima che tutto prenda fuoco.

Raccontaci, Ascheri

DSCN6823Una domenica, un giardino che parla di usi di mondo e di sapienza di famiglia; la campagna intorno illuminata a estate. Un appuntamento classico in un luogo che dove i ricordi si intrecciano al presente. Il primo pranzo in giardino della stagione è un classico in sordina, in cui qualche volto giovane si mescola agilmente con signore e signori che hanno un’allure da volpi argentate (volpi ‘sparate’ diceva un collega, re delle ricerche di mercato, per definire quelli che avevano superato la settantina, indenni o quasi, perché solo sfiorati dalle fucilate della vita).

Da quando sto in campagna – e che campagna!: un vero luogo da privilegiati – di pranzi in giardino ne ho frequentati molti, locali e nei dintorni, ma meno che in città… Se stai in città, in un luogo minerale come Milano (i cui giardini sono e rimangono segreti), pare che ti colga una fregola irresistibile di verde, quando le giornate appena cominciano ad allungarsi e il tempo si fa tiepido; e allora i terrazzi diventano giardini.

Da Francesca, nel giardino incantato di ortensie e rami che si intrecciano sulla nostra testa, siamo stati invitati per ascoltare Mario Ascheri che racconta (che peccato che non lo possano ascoltare i giovani di questa terra che troppo poco sanno e ancora meno sanno di non sapere …) la storia dei Chigi. Mi auguro che l’Ascheri sia così generoso (e lungimirante) da inaugurare una serie di quaderni (“I Quaderni di Mario Ascheri”), di bel formato, centoventi pagine e le illustrazioni solo in copertina o b/n al centro libro, per raccontarci – con la sua maestria – queste storie di una terra di cui lui sa dire senza retorica, e con un certo ritmo da romanzo (e che nessuno osi pensare che ‘romanzo’ sia una diminutio, perché non è così) che tiene alto l’interesse della platea, nonostante la narrazione avvenga dopo pranzo (e che pranzo!) e dopo il piovasco vaghissimo che ha inquietato la padrona di casa e animato i convitati …

Mi veniva in mente un pranzo alla Giudecca, in altro tempo e altro giardino, dove il sole splendeva, ma le inquietudini erano ben altre che una tovaglia inumidita dai capricci del tempo. E ascoltando il professor Ascheri che ci dava dentro con energia – perché è uno a cui raccontare piace e lo fa con una passione contagiosa – pensavo che se ce ne fossero tanti, come lui – diciamo un migliaio, sparsi per il paese – e se li si potesse incaricare di narrare la storia e le storie dell’Italia, nei giardini, nei chiostri, in certe piazzette, in qualche radura, … oh raccontaci ancora, Mario Ascheri …

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