Veganità e nouvelles vagues

dscn8010Mi ero ripromessa di scrivere qualcosa sui vegani, dopo aver letto ieri un po’ di numeri in proposito. Sul movimento vegan avevo scritto qualcosa una decina d’anni fa o forse più, perché già allora in Germania i vegani avevano fatto notizia, ricavando ampio spazio per il loro pensiero in quel paese dove cominciavano a essere considerati un mercato promettente.

Chi ha lavorato seriamente in pubblicità (per imprese che chiedono alla comunicazione risultati concreti e non voci di spesa per giustificare uscite di denaro pubblico) sa che i “nuovi modi” di guardare alla vita, alla propria e a quella di tutte le creature viventi, sono meno effimeri delle mode, più subdoli, più radicati; più futuribili perché hanno una matrice culturale e provengono da un modo di ‘sentire’, prima ancora che da un modo di pensare. Avevo iniziato a riflettere sugli animali negli anni ottanta, tenendo lezioni sulle strategie di comunicazione ai futuri giornalisti, alla LUISS; gli scioperi di Alitalia erano così frequenti che molte volte anziché volare da Milano a Roma prendevo l’auto e guidavo sull’Autosole, incontrando nel lungo tragitto innumerevoli camion che trasportavano animali verso il macello.

Era inevitabile che mi capitasse di incontrare lo sguardo consapevole di alcuni di loro e di sentire l’odore della loro paura – quello che ognuno di noi può evocare già pensando all’espressione “carro-bestiame” – o anche solo di immaginarlo. Con tutto quello che mi ha ‘lavorato dentro’ per questi incontri autostradali e altre avventure in vari allevamenti. Ricordo bene come in aula insistevo su un sentimento travagliato che scaturiva dalla contraddizione tra l’essere onnivoro-carnivora e sentire pena e compassione per quegli esseri che giorno dopo giorno ritrovavo nella bistecca che pure mi piaceva assai. Insistevo sulla contraddizione e rimarcavo che prima o poi questi dubbi, queste sofferenze si sarebbero tradotti nella crescita di un atteggiamento nuovo nei confronti degli animali.

Parlavo dell’acqua calda, ovviamente. E ora che i vegetariani e i consumatori di carne moderati stanno diventando una percentuale importante della popolazione italiana (non solo italiana ben inteso!), anche i vegani stanno raggiungendo numeri che li fanno diventare un mercato, un mercato così interessante da essere considerato un’opportunità, sulle pagine del Corriere della Sera, persino in Toscana, regione a vocazione carnivora, con alcune notevoli eccellenze in quel settore.

Chi sono i vegani e come si comportano? Il rifiuto di consumare qualsiasi prodotto che deriva dal regno animale è la chiave d’accesso a quel pensiero. Perciò niente bistecca, ma anche niente poltrona Frau rivestita di cuoio, no agli slip di seta (baco da seta) e no al cashmere bertinottiano (ma anche dalemiano e dintorni). Ma vegano vuole dire anche no uova, no formaggi, no miele (e no lieviti!); qualcuno si chiederà ma allora che cosa mangiano, mentre io sono più curiosa delle soluzioni che eliminano la lana d’inverno (e ovviamente anche il piumino d’oca). Ma se seguite un po’ la moda vi sarete accorti che sono sempre più frequenti le proposte di cappotti in cotone mischiato ad altre fibre e se siete un gourmet sapete perfettamente che cresce l’offerta vegana nei ristoranti e nei bistrot e aumenta il numero delle osterie e dei ristoranti vegetariani e vegani … così va il mercato.

Insomma un mercato nuovo, aiutato – come accade immancabilmente – dalla spinta salutista, che incita a nutrirsi di semi e di vegetali – legumi, pasta, soia, cicerchia, riso, quinoa, chia, tapioca, orzo, ovviamente integrali e selvaggi – e dimenticare i nostri amici grandi e piccini che con le deiezioni che fermentano inquinando l’atmosfera e con i loro consumi alimentari e di acqua sembra si siano mangiati un bel pezzo del nostro futuro.

Ho letto che i vegani erano l’8% della popolazione l’anno scorso, nel nostro paese, e che sono in continua crescita. Ho letto anche che ben settanta aziende in Toscana hanno colto questa tendenza, operano offrendo prodotti in questo settore (cibo, bevande, cosmetici, abbigliamento, servizi) e stanno fatturando con incrementi annuali a due cifre. Come sempre accade nel nostro paese, dove ora tutto è diventato miracolosamente ‘bio’ (anche il lucido da scarpe se possibile) pur di vendere, ci sarà  anche chi appioppa l’aggettivo ‘vegano’ a qualsiasi bene o a qualsiasi processo produttivo; poi ci sarà la solita politica ‘bassa’ che cercherà di appropriarsi della gestione della cosa, di farla diventare una denominazione, una tutela, un certificato da ottenere pagando una prebenda a qualche nuova ‘semplificazione’ che sarà il ‘futuro professionale’ di un po’ di trombati …

 

 

Chi crede in bio

Qui in campagna ho visto uccidere gli alberi che facevano scomodo a secchiate di acqua bollente sulle radici (acqua bollente reiterate volte, invece del gasolio con cui si otterrebbe identico risultato, mi hanno spiegato, perché non lascia tracce e l’albero si secca ‘naturalmente’); ho visto – e questo purtroppo ancora si vede – buttare la risulta delle demolizioni o delle ristrutturazioni nei boschi, in qualche bella radura; ho recriminato molto privatamente sull’olio avanzato dalle fritture e sversato tra un cespuglio e l’altro e scritto – nella mia veste preferita: quella della strulla di Milano – sui rischi (anche estetico- turistici) delle pratiche diserbanti …

Ma la campagna sa essere crudele, anche miope – cieca -: non sto parlando degli alberi o dell’erba e nemmeno dei filari di viti che in questi giorni ci stanno regalando gli ultimi bagliori dorati prima dell’inverno. No: parlo ovviamente di noi umani e della nostra visione del mondo; che in campagna – anche più che altrove – coincide con la tele-visione, cioè con il livello più basso e più incolto del paese Italia.

L’Italia con la vista corta non legge, perciò non sa, anzi nega a sé stessa la possibilità di allenare le proprie idee e le proprie esperienze; non legge e invece guarda la tv, quella italiana, la più becera tra tutte. Perciò la vasta platea dei non lettori, fino a poco tempo fa non sapeva che una nuova sensibilità verso il verde – inteso come colore di piante e prati – stava facendosi prepotentemente strada in vasti gruppi sociali e diventava una delle principali componenti culturali del mondo cosiddetto civile.

In campagna la vita è dura – anzi no, però lo sembra – e ciò che attrae chi ci vive non è tanto l’innovazione, o la ricerca di un migliore approccio alla modernità, o una maggiore apertura mentale. Quello che interessa, invece, è come cavarsela (chi sta peggio); oppure come fare più soldi. Eppure, contrariamente a quello che sembrano pensare gli abitanti della campagna, anche se la città è il luogo della modernità e del business, la campagna – la terra, più specificamente – è il luogo del futuro.

Lo sarebbe comunque, dato che la terra – il suolo – è un bene ‘finito’, cioè qualcosa che non si può produrre: una volta che l’hai consumato – inquinando, costruendo, insterilendo, sciupando – non ne puoi creare dell’altra, come accade per i soldi o (in modo un po’ più limitato) con gli edifici. Ma se lo si cura, questo bene (la terra), se lo si fa fruttare in modo che sia sempre più bello (anche esteticamente) e più buono (tramite ciò che vi cresce), addirittura più profumato, è come se avessimo messo dei soldi in titoli ad altissimo rendimento, ma titoli anche molto sicuri (spero che l’esempio usato aiuti a migliorare la mia capacità di farmi capire).

Un manipolo – mica tanto piccolo – di imprenditori e cittadini, molto variegati tra di loro – il 23 di questo mese ha fondato un comitato per la creazione del Bio-Distretto, qui a Montalcino (ma senza limitazioni territoriali). Io c’ero, anzi ho pure contribuito nel mio piccolo; c’ero e pensavo, mentre guardavo le persone che andavano a firmare il proprio impegno, alle diversità tra i ‘profili’ e i pensieri che li avevano spinti fin lì, sfidando chi sé stesso, chi la diffidenza verso alcuni dei convenuti, chi il conformismo regnante in una collettività rurale che stento a definire comunità, ma che proprio questo evento potrebbe svegliare a un senso della solidarietà in nome della terra (del benessere della terra).

Il 23 novembre per me è un giorno speciale, e ho pensato che anche questo lo fosse – lo sia stato -, tuttavia bisognerebbe iniziare da subito a elaborare questa idea di “bio” che – ancora una volta – per gli immediati dintorni si ferma alla parola; parola che da sola non basta (con la sola eccezione di “Euchessina”) e che la macchina – scassata – della ‘comunicazione’ ha subito iniziato a usare in tutte le salse. Con creazione istantanea di mostre fiere, kermesse, convegni e, pure (tanto per cercare di essere più reali di un re), lezioni di cucina vegana.

L’urgenza di superare la parola, passando subito alla testimonianza, coincide con l’interesse a chiarire che bio non è un modo di aggiungere (la definizione alla propria etichetta e al nostro biglietto da visita), ma è un modo di vivere e di pensare. E fa niente se i ‘fondatori’, da questo punto di vista non sono tutti perfettamente vergini. Perché chi crede nel bio sa che quando uno incomincia a pensare in un certo modo e alcuni vecchiDSCN9126 schemi si scompaginano, si fa largo un modo diverso di guardare la terra e si inizia a capire che chi crede in bio, crede in sé stesso e in una vita più ricca. E questo è un pensiero davvero contagioso, in un momento in cui la capacità di credere in qualcosa che sia anche bene comune si è affievolita, mentre invece bisogna a tutti i costi darle un senso e maggiore energia.

Tempo di vigna, tempo di cantina

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E difficile trasferire a parole l’ansia, le paturnie, gli stranguglioni che girano intorno e dentro una vendemmia; lo affermo da profana, ma da molto vicino. Alle solite complicazioni organizzative, che – come spesso accade nel nostro paese – puniscono chi lavora e chi vuole lavorare, si aggiunge la grande incognita minacciosa del meteo, che ha già fatto danni e non promette niente di buono. Non resta che ‘sperare’ e lavorare. La campagna chiede coraggio e pazienza, qualità che abbondano tra gli agricoltori, soprattutto tra quelli che lavorano ‘sul proprio’, rischiando tutto per offrire un vino più genuino possibile, senza velleità, con naturalezza e semplicità; e con molta fatica, trovando il tempo e la voglia di un sorriso. A tutti questi uomini e donne dedico questo post con i colori scoperti in cantina. Con infinita gratitudine.