I cavoli a merenda

Tra le quattro e mezza e le cinque meno un quarto del pomeriggio nelle stagioni calde sento spesso un languore particolare; è una sensazione remota, appena un’eco di qualcosa che viene da un passato remoto e con un ricordo preciso.
Sto seduta su uno sgabellino solido ma un po’ sbilenco, basso perché costruito a misura di bambino, la schiena appoggiata alla rete da cui escono mille foglie e rametti di una natura rigogliosa e incontenibile e, tra le foglie e gli steli di così tanti verdi, si possono intravedere altri colori – zinnie e dalie e phlox e ranuncoli, e anemoni nei due classici colori -. sono una bambina un po’ pigra e meditativa, tendo a indugiare lasciandomi trascinare dai pensieri infantili che non prevedono morte e altri dispiaceri.
Del resto la guerra è finita e ora sul pane c’è sempre il burro buono che viene dagli alpeggi che stanno dietro le montagne lì intorno; la guerra è finita e io ne ho visto un bel pezzo, ma i ricordi stanno sfumando, rimescolati dalle attenzioni rivolte alla piccola di casa. Il rastrellamento in cui hanno preso mio padre, lo spavento per una sventagliata di mitra giù nella valle, quell’uomo che veniva giù dal cielo attaccato a un grande pallone bianco, l’aereo che girava ronzando sulle case sparse, quelli in divisa che parlavano con la nonna chiamandola ‘mutti’, in una lingua diversa da quelle altre che parlavamo tra noi, in casa; poi anche un grande rombo e la polvere bianca che cadeva dal soffitto sul tappeto rosso sangue che ricopriva il tavolo attorno a cui si cenava.
Ora tutto scivolava serenamente tra il pigolare di una nidiata di pulcini che la nonna mi aveva mostrato in segreto, il golfino bianco fatto con l’angora dei conigli che una notte sono spariti, la pasta fatta in casa con la farina trovata alla borsa nera e le uova del pollaio della nonna.
Sto seduta sullo sgabello a misura di bambino e mi torna in mente lo spavento più grande – quello che non dimenticherò mai – quando un aereo ha sganciato in mezzo al grande prato verde, accanto al campo dei fagioli, un micidiale spezzone incendiario. In mezzo al prato c’ero io, con la zia e il mio volpino bianco, forse destinati a diventare danni collaterali ante litteram.
Quell’orto e quel prato non ci sono più, e nemmeno la casa della nonna, ma lo scoppio assordante non riuscirò mai a dimenticarlo, e nemmeno la forma contorta del mucchio di metallo fumante. Quello rumore forte e vicinissimo ritorna spesso nei miei pensieri, anche se ora c’è un altro orto – quello dove sto seduta ora a fare merenda – un’altra casa, dalle cui finestre posso vedere lo spiazzo, dove c’era la casa della nonna, che ora è tutto occupato dalla segheria. Così assorta mi riscuoto con un sussulto per difendere il piatto dall’assalto dei pulcini che in poco tempo sono un cresciuti e sembrano una banda scalmanata, indifferenti alla presenza della grande chioccia che cerca di tenerli insieme. Finita la guerra, la merenda ora è più abbondante, anche se tutto è ancora razionato. L’ho sentito dire, ascoltando i ragionamenti di nonna zia e mamma, che di sera discorrono del futuro, una parola di cui non afferro il senso. So di essere “la bambina” o “l’enfant“, al centro dei loro pensieri: gli uomini hanno altro da fare – confini da varcare, case da recuperare, lavoro da inventare -. Per me è stato bello traslocare in questa casa che mi sembra più accogliente di quella vecchia, abbattuta insieme al grande ciliegio che le stava davanti. Poi c’è l’orto nuovo che ci dà da mangiare, e il pollaio, ora molto più modesto ma più vicino a casa, e tanti fiori che la nonna ha piantato e seminato, e che sono la passione di mia madre; poi c’è un rospo enorme che invece è l’alleato di mia nonna nella sua perenne lotta contro lumache e altri piccoli animali che divorano le belle foglie verdi delle nostre verdure – quelle che fanno bene “alla bambina” -. La merenda che mi hanno dato è pane bigio spalmato di burro e poi di miele; il miele abbonda, lo zucchero invece scarseggia ed è razionato. Il miele lo fanno le api della nonna che pianta fiori e lavande tutto intorno, e non costa se non il lavoro quotidiano: ma questo io non lo posso sapere; lo zucchero si trova alla borsa nera ed è più caro. Ho abbandonato quelle merende pochi anni dopo, preferendo il pain d’èpices che mi faceva sentire più grande, ma negli anni avevo anche amato molto l’uovo sbattuto della zia. In quella casa – della famiglia di mia madre – sarei tornata, ma solo durante l’estate, anche dopo la morte della nonna, che avevo visto un’ultima volta salutarmi dalla finestra della sua camera – molto vecchia, piuttosto severa, terribilmente lucida fino all’ultimo dei suoi giorni -.
Di quegli anni mi è rimasto il ricordo dell’orto come un piccolo paradiso dove trascorrevo ore irripetibili nei lunghi pomeriggi estivi, leggendo accoccolata nell’angolo dei phlox, nel bel fresco delle verdure, con il gorgoglio dell’acqua dello stretto fosso d’irrigazione, bordato di erbe e abitato da creature sconosciute ai miei nuovi amici di città. E mi torna la voglia di una merenda, perché sono una bambina che si ricorda della guerra.

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