Mi dia un Etto di Paesaggio

Sì, paesaggio ma non troppo. Un etto basta e avanza: è giusto quello ‘zic’ che serve a “fare business”, un’espressione che sto incominciando a detestare; non per moralismo nei confronti dei danée, degli affari, cioè del business di cui prima, ma perché in questa fase delicatissima, in cui chi pensa e legge e riflette dovrebbe aver capito che valorizzare non vuole dire tradurre in cartamoneta, ma significa proteggere, riguardare, rivedere i criteri di convenienza a lungo termine, senza – ovviamente – trascurare il lavoro e le sue remunerazioni. Invece il paese sembra abitato da pappagalli orecchianti, pronti a dire la parolina giusta, quando si pensa che sia quella che “fa fare business”. La parolina, ma nulla che vada oltre; e invece è vero che “basta la parola”, ma basta ad andare “là”! DSCN5991

Così, dopo il super qui e il super lì, dopo i lunghi anni di ginnastica sulla “qualità” e sull'”eccellenza”, la campagna nostrana scopre il paesaggio, cioè scopre sé stessa. Qualcosa che, nei secoli è stato nel cuore e nella mente di poeti e musicisti, alle spalle di madonne e altri santi, nell’idea di un mondo intelligente e colto (che non vuol dire libri letti, ma gente che pensa!), in cui l’agricoltura “produce” il paesaggio; e quanto più è bello il paesaggio prodotto, tanto più è buono ciò che l’agricoltore produce.

Diamo il benvenuto ai nuovi adepti del paesaggio, e speriamo che non lo pensino come nell’immagine qui sopra: qualcosa da citare, da da tenere in un recinto di comodo, affinché non rompa le scatole a chi “deve fare business”. Perché il paesaggio – ce lo ha spiegato uno dei massimi poeti viventi – è dentro di noi e produce, sì: produce pensiero e civiltà.

4 pensieri su “Mi dia un Etto di Paesaggio

  1. Mi ricordo come era il mio piccolo mondo prima che venisse levigato da lestofanti locali e stranieri e prima che lo facessero diventare una disneiland per riccastri che ora se ne guardano bene dal venirci con la conseguenza di avere prezzi degli immobili e dei terreni assurdi che nessuno si vuole più accollare e chi li ha non vede l’ora di andare via.
    Però non esistono più gonzi di passaggio.
    Rimarranno tante cattedrali nel deserto riprese con forza dai rovi?

    • No, perché sta arrivando un’altra onda, quella dei ricchi dell’est, e dei loro succedanei. Però purtroppo queste invasioni – davvero barbariche (nel senso che l’idea dei luoghi è sempre più approssimativa: l’imitazione dell’eco di ciò che si supponeva fosse stato) – sgretoleranno ciò che resta della Toscana, aiutati dagli inventori delle “feste” “epocali” per celebrare una “regione che non ha rivali”. Allora, se penso alla Toscana in cui arrivavamo – noi milanesi, estenuati da settimana di cinquanta o sessanta ore – in punta di piedi, rispettosi di questo mondo più povero, ma più equilibrato e civile, più poetico, a cui eravamo profondamente grati, perché ci donava un frammento di serenità, mi viene – milanesemente – il magone. Purtroppo però, ancora una volta è una questione di ‘cultura’ (e ancora una volta non sono i libri letti, ma i pensieri, le riflessioni, la scala dei valori): tocca assistere anche alla menata del paesaggio, tirata fuori da chi non ha la minima idea di che cos’è.

  2. Che poi bisognerebbe aggiungere “quale” paesaggio, perché la Toscana NON È tutta file di cipressi su colline dolci. Nella Maremma grossetana o nell’Amiata non ce n’erano, e in Valdorcia solo nei viali d’accesso alle ville e ai cimiteri. Ma ora ogni neo possidente ne borda vigne e viali, con una ostentazione di analfabetismo della grammatica del paesaggio che grida vendetta al cielo. E i muri delle case in pietra a vista, mai esistiti nella storia? Quei muri erano a sacco, l’intonaco povero e a tratti abraso a scoprire le pietre sopravviveva anche ai terremoti e teneva fresco; ora quei muri irrigiditi a cemento buttano una vampa da fornace e crettano a ogni minimo movimento del terreno. Così come gli infissi a legno, prima erano sempre stati verniciati azzurrini o bianchi e duravano molto, ma molto di più.

    • Ineccepibile. persino la sottoscritta – una che viene da terre lontane e aliene – si ricorda degli infissi dipinti nei colori più resistenti alle intemperie (già perché non tutti i colori hanno le stesse caratteristiche: cioè abbiamo parecchio da recuperare, quanto a “saperi si un tempo”, ohibò).
      E sui cipressetti, ahi ragione, anche se continuo a preferirli rispetto a una centrale a biomasse o a una fila di casette a schiera…. (senza sarcasmo: e non è una escusatio non petita)..

Rispondi a Andrea Pagliantini Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *