Salita al Colle

Accoccolata sul muretto su cui più di trent’anni fa ho visto sedere tutti gli abitanti – allora numerosi – di questo villaggio, osservo le fusa e gli andirivieni di una gatta graziosa e non più giovanissima.
Il sole cala lentamente in queste giornate dell’anno che cresce verso un’estate ancora più sconosciuta del solito.
Ho quasi traslocato il mio piccolo ufficio – con tutte le implicazioni di un trasloco: rimpianti, fatica, reticenza e viltà, ansie e soddisfazione -. Ora attendo che mi torni un po’ di forza per scaricare dall’auto un’altra porzione delle numerose carte e carteggi che la repubblica delle banane pretende dai suoi sudditi, indifferente all’occupazione di spazio implicita, alle complicazioni, alla stessa brevità della vita umana paragonata alla burocrazia enfatica e dilagante.
Chi passa e si avvicina riceve il sole dritto negli occhi e si fa schermo con le mani; Mustafa si siede accanto e si arrotola una sigaretta, intrecciamo discorsi sulla vita in Tunisia – dove ora chi va al governo deve rendere conto di ciò che possiede e come l’ha acquisito, mi racconta Mustafa – parliamo di queste giornate di politica malata qui in Italia; parliamo di cibo, di Ramadan e di razzismo. Chiara ci passa accanto, tende la mano sulla propria fronte e racconta le esperienze di padrona di casa di questi cittadini non più nuovi, ma considerati sempre diversi. Di diversità parliamo, mentre la gatta si appoggia alla mia schiena, godendo di questo spicchio di giornata che si chiude. Dietro le mie spalle la campagna diventa bionda di sole, fulva nel tramonto; l’aria è fresca, le notizie pessime. Ricordo vivamente quando arrivavo da Milano e qui non c’era niente, la gente era curiosa e gli sguardi senza ombre. Non c’erano soldi, qui, e noi che venivamo da una città ricca e lavoratrice piombavamo nel villaggio come sassi in uno stagno limpido e pulito. Non so se starò qui a lungo ancora; la campagna mi piace, la gente non c’è più, davvero ce n’è poca. Il paesaggio si è imbastardito in modo subdolo; ma intendiamoci, quelli che arrivano d’altrove – e spesso anch’io – sgranano gli occhi sul verde intenso e variegato di vigne e bosco e ulivi e cipressi. Ma si capisce, guardandosi in giro che gli interventi avvengono a casaccio, senza la capacità di ‘vedere’ oltre gli aspetti contingenti, talvolta rivelando aspettative di un benessere folkloristico.
Ma ci sono ancora alcuni clivi su cui si intrecciano alberi e cespugli con i rami che si stanno impolpando: ha piovuto tanto e il verde si sviluppa velocemente, come se volesse recuperare il ritardo.
Curiosamente, questo ritorno di stasera – apparentemente una sera come molte – ha un sapore diverso; mai come ora la vita si è rivelata piena di turbolenze e di rischi; il cambiamento non è una promessa, ogni mattino porta storie che parlano della sconfitta di un paese di illusi, e le sere sono consuntivi che non ascolto volentieri.
Eppure, sarà la luce – so che la luce intensa e l’aria tersa hanno poteri speciali sull’umore e sulla salute psicofisica -: sento salire in me un guizzo, un sentimento di contentezza: capisco che il trasloco è finito, è tutto dentro la mia testa e posso contare su di essaDSCN0244, infine.

2 pensieri su “Salita al Colle

  1. La foto sgrana e quindi può darsi prenda una cantonata, ma sarei propenso a dire che il filare di uva matura dietro al sasso nella foto è cabernè, mentre su in alto, nella vigna centrale quella massa di foglie più scure rispetto alle altre più chiare o si tratta di una casse ferrica o leviti sulla sinistra e sul davanti sono di merlò o colorante.

    • Non lo so, ma non credo. Ma io non distinguo né gli ulivi (olivastre a parte) né le viti, salvo quando si è d’autunno; e a proposito di ciò, d’autunno (mi viene in mente mentre scrivo), le vigne che indichi hanno foglie che ingialliscono come il sangiovese … a meno che vengano ‘colorate’ o decolorate, come tante signore dal parrucchiere di fiducia!

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